Ci sono molte ragioni per leggere ogni giorno Avvenire.
Certo per la cura e l’attenzione con cui segue e guarda le vicende del
Sud del mondo (a parte, forse, “il Manifesto”, non c’è altro quotidiano
italiano capace di mettere al centro terre e popoli dimenticati), certo
per le pagine culturali, impostate anni fa con grande intelligenza da
Roberto Righetto, certo anche – soprattutto dopo l’elezione di papa
Francesco –per gli aggiornamenti sulle vicende ecclesiali. A queste
ragioni, io aggiungo pure – da diversi anni – gli editoriali e la pagina
domenicale affidati a Luigino Bruni: un’economista sapiente, docente
alla Lumsa di Roma, autore di testi di
grande valore scientifico, promotore e cofondatore insieme a Stefano
Zamagni della Scuola di Economia Civile, incentrata su paradigmi quali
reciprocità, bene comune e attenzione alla persona. Luigino Bruni è uno
studioso che ha avuto il coraggio di confrontarsi a tutto campo – con
rigore e, insieme, con libertà – con i testi biblici. Testi sorti
dentro la grande sapienza ebraica e consegnati a tutti perché capaci di
offrire una direzione all’uomo di sempre e dunque anche all’uomo di
oggi. Un “grande codice” – incredibilmente ignoto alla maggioranza dei
contemporanei – che, nel corso dei secoli, ha fornito un linguaggio di
parole, di gesti, di immagini con i quali affrontare i temi
dell’esistenza umana, nessuno escluso, offrendo chiavi interpretative
non solo per “leggerli” ma soprattutto per una vita umana – che è anche
vita politica, economica, culturale – ricca di senso. In questi anni,
Luigino Bruni ha scritto del libro della Genesi e di Esodo, di Ezechiele
e Isaia, di Qoelet e di Giobbe. Ogni volta rimango colpito dalla sua
capacità di “sfidare” il testo confermandomi nella convinzione che la
Bibbia ha ricevuto questa accoglienza così universale – che si è estesa
anche ben al di là dell’ambito occidentale e mediterraneo in cui è nata
e si è diffusa originariamente – proprio perché narra di valori e
realtà profondamente umane. Lo fa servendosi di una lingua e una cultura
particolari, certo, ma giungendo attraverso di esse al cuore
dell’esistenza umana in quanto tale. È evidente anche in questo ultimo
libro pubblicato con la piccola ma prestigiosa Qiqajon, la casa editrice
della comunità monastica di Bose: L’anima e la cetra. Ciò che i Salmi dicono di noi. (pp.229, euro 22). Proprio su questa ultima fatica, ho dialogato a lungo con Luigino Bruni.
Da tempo tu stai commentando una serie di libri biblici. Perché da economista ti sei messo a farlo?
In realtà è una risposta difficile. Mi sono ritrovato dentro la
Bibbia quasi senza averlo scelto. Forse perché, come dice Elias
Canetti, ‘anche se non la leggi, sei nella Bibbia’. O forse
perché semplicemente nella vita esistono le sorprese. E l’incontro con
la Bibbia è stato, e continua ad essere, una grande sorpresa (ora sto
lavorando su un commento a Rut e al mio primo commento al Nuovo
Testamento, il vangelo di Marco). Poi perché l’economia è vita e la
Bibbia parla di vita, e quindi di molta economia. Anche se io non
commento solo l’economia biblica, commento quello che trovo, pure gli
angeli e i demoni. Quindi più che di economia biblica mi piace parlare
di un economista che legge la Bibbia. Le mie domande sono
diverse da quelle di un teologo o di un biblista, perché mi interessano
cose diverse. Non credo che finora nessuno si fosse interessato a quando
per la prima volta nella Bibbia si parla di profitto, salario, prezzo,
contratto… Io ho fatto questo, e anche altro.
Aiutami a specificare ulteriormente: in che modo la Bibbia ha a che fare con l’economia?
Nella Bibbia c’è molta economia, e nell’economia c’è molta Bibbia
(soprattutto negli economisti del passato, nello ’spirito’ del
capitalismo (Weber) e nei tanti imprenditori che si sono ispirati alle
scritture per il loro valore e per la loro vocazione. Poi l’economia ha a
che fare con la condizione materiale della vita, come la Bibbia, che
parla un pò di Dio ma tantissimo di uomini e donne, e quindi di lavoro,
di pane, di fame, di produzione, di monete, di contratti. Ma questi temi
escono solo se li guardiamo, se li chiamiamo, se li facciamo risorgere.
Ogni autore che legge la Bibbia con nuove domande somiglia a Gesù che
dice a Lazzaro: “vieni fuori”.
Cosa ti ha insegnato “frequentare” assiduamente la Bibbia? Come ti ha aiutato a “decostruire” la tua precedente immagine di Dio?
Sono in parte un autodidatta, in parte sono stato aiutato da un mio
amico biblista, Gérard Rossè, e da Mons. Ravasi, prima che diventasse
cardinale e prefetto, quando lavorava e Milano e io frequentavo le sue
lezioni al San Fedele. Poi mi ha molto influenzato il programma di
Radio3 Uomini e Profeti, quando Gabriella Caramore invitava
poeti, filosofi, scienziati, scrittori a commentare la Bibbia. E un
giorno mi sono detto: perché non un economista? E, grazie a Marco
Tarquinio direttore di Avvenire che mi ha dato una grande e
rischiosa fiducia, ho iniziato nel 2013, chiedendogli alcuni anni di
fiducia, perché volevo attraversare qualche libro intero. E ora, dopo
otto anni, sono arrivato a undici libri dell’Antico Testamento. Ogni
lettura biblica, se è fatta veramente (e non si fa la doccia con
l’impermeabile) e quindi ci si lascia leggere da Essa, ci ridona
un’altra immagine di Dio. O meglio: ci elimina l’immagine di Dio che
avevamo iniziando la lettura, ci fa vivere il dispositivo che
custodisce: ’non ti farai di Dio alcuna immagine’. Le immagini di Dio si
chiamano ideologie, che quando diventano ideologie teologiche sono
molto pericolose, perché impediscono a Dio di diventare diverso
dall’idea che ce ne siamo fatti. Grazie a Dio, la Bibbia ha distrutto la
mia idea-ideologia di Dio, creando un vuoto dove è iniziato un nuovo
cammino di fede e di umanità.
Come mai, nella scelta dei libri biblici, sei arrivato al libro dei Salmi?
Era il marzo 2019, e stavo lavorando sulla fondazione sacrale del
capitalismo. Esplode la pandemia, un immenso dolore, una immensa paura
collettiva. E lì ho sentito di dover lasciare l’economia e prendere in
mano i Salmi,
per accompagnare i dolori e le paura della mia gente. È nato come
carità intellettuale, come atto d’amore civile. Speravo che qualche
pagina potesse arrivare nelle corsie di terapia intensiva, nelle case
dei parenti, e portare qualche parola diversa. Perché i Salmi sono
anche, e forse soprattutto, il grido dell’uomo di fronte al dolore, un
grido rivolto ad un cielo che si crede abitato. E volevo che le nostre
grida fossero accompagnate, almeno un poco, almeno un pò di più. E ho
iniziato.
Personalmente
credo che si inganna chi pensa di trovare nei Salmi delle pie
invocazioni, ingenui testi edificanti, buoni sentimenti. A me paiono
invece, al contrario, parole molto umane, nate dal sangue e dalla carne
di un popolo che nella poesia che si fa preghiera, affronta Dio con
tutte le sue passioni, le sue miserie, i suoi desideri. E’ stato così
anche per te?
Il salterio, come tutta la Bibbia, è una commedia umana e divina. È
un grande esercizio di empatia, che ci costringe ad immedesimarci nei
vari ‘caratteri’ e nelle varie maschere della vita. Ora si prega con la
voce di un uomo giusto, ora con quelle di un malato, ora con quelle di
un prigioniero disperato, ora con quelle di chi maledice il nemico e gli
augura di morire. Noi, in genere, tendiamo a simpatizzare con la ‘parte
buona’ del mondo, a identificarci con essa, e a scartare la parte
maledetta. La Bibbia invece ci fa compiere l’esercizio del gioco delle
parti, un esercizio incarnato, e quando arriviamo al Salmo delle
imprecazione e maledizioni dobbiamo provare a immaginarci nella carne di
un papà con una bambina violentata, una madre con un figlio ucciso
dalla mafie, genitori di un bambino che affoga nel mare. E lì, in quel
giorno, forse capiamo che quelle parole era lì anche per noi, per
accompagnare le nostre disperazione e condurle oltre il mare.
In questo tempo di “crisi” c’è un messaggio particolare che ci giunge dai Salmi?
Certo. I salmi sono stati scritti, in parte almeno, o riscritti e
completati, durante l’Esilio Babilonese. L’elaborazione dell’esilio fu
per Israele la grande impresa di non dimenticare Sion ma neanche di
ricordarla troppo e quindi morire insieme ad essa: “Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”
(Salmo 137,1-2). È lo stupendo salmo dell’esule, forse l’elegia più
bella della Bibbia. Il salmo che più di tutti ci racconta, in presa
diretta, il processo spirituale ed etico collettivo con cui Israele
tentò di dar senso alla sua tragedia più grande, per continuare a
vivere. È uno sciopero dei musicisti, un gruppo di ex-cantori del
tempio. Hanno appeso le cetre sui rami dei salici che crescevano lungo
le fertili sponde dei fiumi di Babilonia. Lì sedevano insieme, insieme
piangevano. E un giorno smisero di cantare. Un digiuno corale di
artisti, forse il primo della storia umana. Non si canta in ‘terra
ignota’. In quella terra si può solo intonare il pianto
funebre, si possono solo urlare parole disperate.Quando la vita ci
conduce in esilio, all’inizio vogliamo solo appendere le cetre, buttare
via la penna, tacere, piangere e fare lutto. I salmi ci dicono che
questi digiuni sono buoni, che anche questi mutismi sono parole di vita.
Siamo spaesati, sradicati, estraniati, con dentro e in mezzo a noi una
infinita ‘nostalgia di casa’ e dei giorni felici, soprattutto una
nostalgia infinita del Dio che non c’è più perché è stato distrutto –
dagli altri, da noi, da Dio stesso. Vogliamo e possiamo solo stare
seduti ed alzare alti lamenti verso il cielo e la vita. Questa fase può
durare molto tempo. Per alcuni dura tutta la vita. Qualche volta, un
resto, un piccolo resto – una parte di quella comunità
distrutta, o un angolino ancora vivo nella nostra anima ferita – un
giorno riprende la cetra in mano, e inizia un canto nuovo. Lo inizia lì,
lungo gli stessi fiumi, circondato dagli stessi aguzzini e carnefici.
Non sa perché, sa solo che deve cantare. Riesce a cantare gli stessi
canti della giovinezza, e capisce che quella voce che lo aveva
accompagnato durante la distruzione e poi in esilio, quella voce
sconosciuta e temuta come voce di idolo o del nulla, in realtà era la
stessa voce buona che gli parlava in Sion, ma non lo sapeva. Una
comprensione nuova che è solo e tutta grazia, tutta gratuità. Capisce
che Dio non ha paura dell’esilio, e che non c’è lungo migliore dei fiumi
di Babilonia per cantare e lodare. E alla domanda: ’Come cantare i
canti del Signore in terra straniera?’, giunge una nuova risposta: Cantali esattamente come li cantavi a Sion: io abito anche qui, e non ti ho mai lasciato solo. È
iniziata la fine dell’esilio. Se un piccolo gruppo di esiliati non
avesse ripreso le cetre dai salici e ripreso a cantare, noi oggi non
avremo la Bibbia. E così noi: la vita continua perché qualcuno, quando
non avrebbe più nessuna ragione, ne trova ancora una e ricomincia a
cantare, a sperare, a vivere.