Provo
a rileggere una
Pentecoste degustata dai pochi di ieri e promessa ai molti di oggi,
ma che tarda sui tempi delle mie attese e dei miei desideri: attese
di una fede pasquale sulla mia vita e sulla nostra morte; desideri di
una chiesa meno legnosa e più umana e profetica, di una convivenza
che abbia almeno un giorno senza conflitti e un pomeriggio dove
tutti, proprio tutti, possano mangiare, di un parlarsi che sia
comunicazione, di un popolo di discepoli del Signore che smettano di
essere consumatori del supermarket della religione. Nel mio oggi,
Signore, dov’è la tua Promessa? L’oggi è già invaso da una
Pentecoste senza tuoni e fragori, vite di persone semplici percorse
dal brivido del perdono, del servizio senza sconti, della fedeltà
rocciosa, del martirio di una santità di vita ordinaria vissuta
straordinariamente. Ma il mio oggi è anche disegnato coi tratti di
Babele, la città confusa.
Il testo
di Atti 2 costituisce l’antitesi dello scenario di Babele in Genesi
11, 1-9 che
riporta la biodiversità delle lingue a Babel: gli uomini
intraprendono un’azione con lo scopo di raggiungere Dio per non
disperdersi; ma Dio confonde il loro linguaggio che fino a quel
momento era stato unitario. Generalmente si interpreta questo brano
in senso negativo: la costruzione della torre sarebbe segno
dell’orgoglio umano che tenta di sfidare il Signore e la confusione
delle lingue diventerebbe la conseguenza della sua disapprovazione.
Ma si può riflettere legittimamente anche in termini più positivi.
La narrazione precisa [Gen.11,1]: «Tutta
la terra aveva una sola lingua e le stesse parole».
Questo significa che gli uomini potevano dialogare senza difficoltà
(stessa lingua) e riuscivano ad essere uniti negli intenti e
nell’azione (stessa parola/azione). In effetti nel racconto di
Babele non si parla di punizione, ma solo di confusione e dispersione
che da alcuni maestri della tradizione giudaica furono interpretati
come una necessità per realizzare il comando del Signore: Siate
fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra (Gen. 1,28). Ed è
possibile anche cogliere il lato positivo della confusione delle
lingue: l’unità di intenti, sorretta dall’unicità dei
linguaggi, rischia di degenerare in un potere monolitico (religioso o
politico). Meglio dunque la multiformità dei linguaggi (anche se ciò
potrebbe rendere un po’ più difficile la comunicazione), piuttosto
che l’uniformità che può generare totalitarismi o conformismo.
Questa narrazione ci porta dunque a cogliere il dialogo possibile non
tanto nell’orizzonte dell’omogeneità e dell’uniformità dei
linguaggi, ma nella comune volontà di bene che lo deve sorreggere o
– come diceva il monaco Enzo Bianchi – dell’ unità
plurale. Scrive
il Midrash
della tradizione ebraica: «Il
Santo parlava e la sua voce si diffondeva in tutto il mondo: Israele
udiva la voce che proveniva dal sud e correva al sud per accogliere
la voce di là; allora la voce si spostava a Nord e Israele correva a
nord, ma allora la voce si spostava ad oriente e poi ad occidente e
gli israeliti si spostavano di conseguenza; poi giungeva dal cielo e
i figli di Israele alzavano gli occhi al cielo, ma allora la voce
saliva dalle terra e allora gli Israeliti si chiedevano: “Da dove
viene la Sapienza e qual é la sede dell’Intelligenza? Tutto il
popolo “vedeva le voci” (Esodo 20,18). Perché dice “le voci”?
Perché la voce del Signore si trasforma in sette suoni e da questi
si trasforma nelle settanta lingue, affinché tutti i popoli possano
comprendere». Dio
si manifesta al plurale. L’autore neotestamentario che narra la
Pentecoste post-pasquale narra la pentecoste cristiana in rigoroso
parallelismo con quella del Sinai. La rivelazione di Dio è
capace di dividersi e di parlare in molte lingue e la lode a Dio deve
essere possibile nel rispetto delle diverse espressività dei popoli.
Questo orientamento parrebbe in contrasto con una teologia e una
liturgia ancora troppo occidentali, europee e romane, nonostante le
sollecitazioni pressanti delle Conferenze episcopali di Asia e Africa
– per esempio – per accelerare una coraggiosa inculturazione
nella gestualità e nella cultura locale di ogni popolo.