Una narrazione che non riesce a raccontare è la prima impressione di
fronte al testo di At 2,1-3. Le immagini si susseguono evocando più che
descrivendo. Nel v. 2 compaiono: «un fragore quasi un vento» (ci si
aspetterebbe, semmai, «quasi un tuono») che riempie la casa e poi «lingue come di fuoco». Sono quel «quasi» e quel «come» a dare un senso di indeterminatezza:
colui che scrive pare indeciso su suoni e immagini, tra uragano,
terremoto, tuono e fulmini: non sa bene che cosa dire e come dirlo. In
breve: è accaduto qualcosa di inenarrabile.
In realtà il redattore vuole riportare all’orecchio e alla memoria l’evento del Sinai (cf. Es 19,16ss). Il fuoco è legato alle teofanie veterotestamentarie in maniera peculiare.
La Pentecoste ebraica, come sappiamo, era di per sé una festa agricola,
ma già agli albori del cristianesimo stava diventando una festa legata
all’alleanza e al dono della Torah. Lo attestano in particolare il Libro
dei Giubilei (6,17ss) e alcuni testi di Qumran. Il passaggio dai testi
di questi movimenti settari al giudaismo ortodosso è generalmente
riconosciuto. Il Libro dei Giubilei fa risalire la celebrazione della
festa «delle settimane» (šabuʿot), che esisteva dalla creazione, all’alleanza con Noè: «Questa, poiché è la festa delle settimane e del primo frutto, è una festa duplice, di due specie, così come è stato scritto e stabilito
per essa» (6,21). Tale alleanza noachica comporta solo l’astensione dal
sangue ed è quindi più universale di quella con Abramo e del Sinai.
Tutte però, come questa, più che un’alleanza sono un patto unilaterale. Tanto che alcuni, con un leggero cambiamento di vocalizzazione consentito dal testo consonantico, preferiscono tradurre «Festa del giuramento» (šәbuʿot), anziché «delle settimane».
«L’alleanza mai revocata» (così N. Lohfink) e sempre rinnovata è
infatti una pura iniziativa divina, indipendente dalla fedeltà umana:
non è un premio ai buoni, ma una grazia per tutti. La Torah è il
documento su cui viene stipulato questo patto.
Dunque, Pentecoste come festa agricola e, oramai, soprattutto del
patto. Nel caso di At 2 i fenomeni esterni ci sono, un popolo pure, il
documento su cui si stipula, ovvero la Torah di questo patto, è lo Spirito.
L’imbarazzo del redattore però non scompare. Si raduna gente e questa
gente è turbata, stupita e fuori di sé per la meraviglia (cf. At
2,6-7): anche qui non si capisce bene che cosa succeda. I galilei stanno
parlando verosimilmente nel loro dialetto, ma ognuno li capisce nel
proprio idioma. Il testo è tutt’altro che chiaro su questo punto, ma
pare voglia indicare la realizzazione dell’universalismo dell’alleanza noachica, quel certo universalismo che gli apostoli riconosceranno e accetteranno nella lettera apostolica di At 15,22ss.
Si realizza a Pentecoste quella raccolta dei pagani attorno a Israele già delineata nel libro di Rut, che del resto è la megilla che in questa festa si legge.
L’alleanza sempre rinnovata e la sua universalità rendono ragione
anche dei testi proposti per la celebrazione vespertina della vigilia.
Tra questi merita forse una certa attenzione Gen 11,1-9, in cui
l’umanità pare alla ricerca di un’unità fasulla (cf.
11,4) contrariamente al disegno divino di ripopolare la terra facendo
disperdere i discendenti di Noè (cf. Gen 10). Di unità fasulla si
tratta, perché costruita attorno a un progetto totalitario che non
intende rispettare le differenze: si pensa a una città di mattoni,
perché non ci sono pietre nella pianura della regione di šin`är (cf. Gen
11,2).
Ora le pietre sono tutte diverse e devono essere tagliate e lavorate
per essere assemblate. La simbologia è trasparente: costruire con le
pietre è un lavoro di armonizzazione tra i differenti. I mattoni invece
sono costruiti in serie, tutti uguali: sono l’immagine della
massificazione. Non a caso 1Pt 2,4-5, parlando dei credenti, parla di pietre vive, perché la comunità si può costruire solo armonizzando e connettendo i diversi,
e questa è la prima opera dello Spirito che conosce ogni voce (cf. Sap
1,4) e fa comprendere l’unico Evangelo nelle varie lingue.
Tutti diversi, quindi, ognuno col proprio labbro e le proprie parole (cf. Gen 11,1), ma con pari dignità.
Il vangelo in poche parole