Quando Gesù aveva ormai discepoli che lo seguivano e stavano accanto a
lui nel suo peregrinare sulle strade della Galilea per annunciare la
venuta del Regno, ecco imporsi una scelta, un’elezione. Gesù non è solo
ma ha una comunità che deve apparire come una personalità corporativa,
capace di rappresentare il popolo di Israele, il popolo delle dodici
tribù in alleanza con il Signore.
Per operare questo discernimento, Gesù sale sul monte come un tempo
aveva fatto Mosè (cf. Es 32,30-34,2), e in quel luogo solitario ma
propizio all’ascolto del Padre prega. Secondo Luca nei momenti decisivi
della sua missione Gesù entra sempre in preghiera, cerca la comunione
con il Padre e cerca di discernere la sua volontà. Da questa intensa
esperienza di ascolto egli matura la sua decisione di chiamare a sé e
dunque di scegliere tra i suoi seguaci dodici uomini che saranno da lui
inviati (apóstoloi) e avranno come compito la missione di annunciare il regno di Dio insieme a Gesù stesso.
Ecco dunque Gesù scendere dal monte con la sua comunità “istituita”e
raggiungere una pianura dove trova molti ascoltatori, tra i quali
numerosi malati che chiedono la guarigione e la liberazione dal potere
del male (cf. Lc 6,18-20). Gesù è un vero rabbi, un vero profeta, e
molti percepiscono che è abitato da una forza (dýnamis)
portatrice di vita. In questo contesto Gesù vede attorno a sé i suoi
discepoli e indirizza loro le beatitudini. Si tratta di un modo di
esprimersi ben attestato in Israele (cf. Is 30,18; 32,20; Sal 1,1;
ecc.): esclamazioni, grida cariche di forza e speranza, indirizzate a
qualcuno per attestargli che ciò che lui vive o compie è benedetto da
Dio, il quale porterà a termine l’opera in modo imprevedibile. In ogni
beatitudine è pertanto implicata una promessa di intervento da parte di
Dio.
Nel vangelo secondo Luca le beatitudini sono quattro e risultano
differenti dalla versione di Matteo, che ne contiene nove (cf. Mt
5,1-11). In Luca sono espresse alla seconda persona plurale, indirizzate
direttamente ad ascoltatori presenti nell’uditorio di Gesù e indicano
una situazione concreta come la povertà, la fame, il pianto, la
persecuzione; le beatitudini secondo Matteo mettono invece in risalto le
condizioni spirituali dei beati, quali la povertà di spirito, la
mitezza, la fame e sete di giustizia, la misericordia, la purezza di
cuore…
Abbiamo dunque due testimonianze, due interpretazioni delle
beatitudini pronunciate da Gesù, che sono complementari e ci permettono
di conoscere in modo più ricco e profondo il messaggio che dà forza,
convinzione e speranza ai discepoli. Certo, nell’ascoltare queste
beatitudini e ancor più nell’annunciarle mi bruciano le labbra: Gesù,
infatti, si rivolge a poveri, affamati di pane, piangenti e
perseguitati, mentre io non posso collocarmi tra questi destinatari del
Regno. Ascoltiamole dunque ancora una volta, lasciamo che ci
interroghino, che ci feriscano al cuore e cerchiamo di non essere
scandalizzati dal loro radicalismo: le beatitudini non sono etica e
morale, ma sono rivelazione, sono annuncio da accogliere o rigettare,
esprimono la logica e la dinamica del regno di Dio. Quel Regno che noi
dobbiamo cercare per prima cosa (cf. Lc 6,31; Mt 6,33) nella
consapevolezza che Gesù è la buona notizia, il Vangelo di Dio per noi.
La prima beatitudine è indirizzata a “voi che siete poveri”, cioè ai
discepoli di Gesù che in tutto il vangelo appaiono come poveri: essi
hanno abbandonato tutto, si sono spogliati addirittura della famiglia e,
fatti poveri, seguono il Messia povero. Certo, le parole di Gesù
trascendono i suoi discepoli storici e sono indirizzate alla chiesa,
costituendo un principio di krísis, di giudizio: questi poveri
reali, concreti, ai quali Gesù ha rivolto la beatitudine-felicità, sono
nella chiesa? La chiesa è la comunità dei poveri ed è povera? Domande
che, significativamente, Luca si pone nella seconda parte della sua
opera, gli Atti degli apostoli, dove la povertà e i poveri sono
creditori della condivisione, della koinonía, affinché “nessuno di loro fosse povero” (cf. At 4,34).
Questa prima beatitudine – va ammesso – è paradossale. Com’è
possibile affermare: “Beati i poveri”? Eppure essa risuona in questo
modo perché vuole indicare che non è la povertà a rendere beati i
poveri, ma la condizione della povertà permette loro di invocare,
desiderare, discernere il regno di Dio. I poveri sono quelli che
invocano che a regnare su di loro sia Dio, non il denaro, non i potenti
di questo mondo. In tal modo diventano “significanti”, fanno segno verso
il regno di Dio con una forza più efficace di quella di ogni possibile
comunicazione verbale. I poveri sono segno dell’ingiustizia del mondo e,
insieme, sacramento del Signore Gesù, il quale “da ricco che era si
fece povero per noi, per farci ricchi della sua povertà” (cf. 2Cor 8,9).
I poveri – e bisogna renderli vicini, ascoltarli e conoscerli per
poterli interpretare – sanno riconoscere che il regno di Dio è per loro e
questa è la beatitudine che nessuno potrà mai strappare dal loro cuore.
Verrà il regno di Dio con l’instaurazione della giustizia, e allora la koinonía sarà piena.
Come i poveri reali e concreti, anche quelli che hanno fame e
conoscono la minaccia della morte per mancanza di cibo e di acqua sono
beati. Perché? Perché ora sono in questa condizione, ma il Dio
liberatore agisce in loro favore. Come Luca ha attestato nel Magnificat
cantato da Maria (cf. Lc 1,46-55), donna umile, povera e credente, Dio
con la forza del suo braccio disperde i potenti e annulla i loro piani,
rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli
affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Ci sarà una sazietà per chi
ora soffre la fame! Questa è la giustizia che si esprimerà nel giudizio
di Dio, un giudizio che ci dovrebbe avvertire, perché sarà nella
misericordia se avremo avuto misericordia di chi soffre accanto a noi.
Non possiamo pensare che le omissioni siano meno gravi di un’azione che
provoca morte: chi vede l’affamato e non lo sazia è come uno che gli dà
la morte, è un assassino del fratello!
Consideriamo la terza beatitudine, quella relativa a chi piange,
forse in modo meno temibile, perché prima o poi piangiamo tutti. Qui
però la contrapposizione va letta tra chi trascorre la vita nel lamento e
chi invece vive da gaudente; tra chi conosce solo il duro mestiere di
vivere e chi è esente da fatiche, pesi e sofferenze, perché carica gli
altri dei suoi pesi delle sue fatiche. In sostanza, tra oppressi e
oppressori. La gioia e il canto sono dunque la promessa di Dio anche per
quanti sono oppressi.
Infine, l’ultima beatitudine lucana è indirizzata ai perseguitati a
causa di Cristo e del suo messaggio. Sì, ci sarà persecuzione per chi
porta il nome di cristiano, ci sarà ostilità, disprezzo e insulto: se
infatti è avvenuto così per Gesù, il maestro, potrà forse avvenire
diversamente per i discepoli? Con questa beatitudine Gesù intravede il
futuro e noi sappiamo come ciò è sempre accaduto e accade oggi più che
mai, per molti cristiani sparsi nel mondo. Costoro possono esultare ed
essere gioiosi, perché la persecuzione testimonia l’appartenenza a
Cristo di chi è osteggiato e gli assicura la ricompensa del regno dei
cieli.
In Luca alle beatitudini seguono i “guai” (Ouaì hymîn!),
grida di avvertimento per quanti si sentono autosufficienti. Si faccia
però attenzione: non si tratta di maledizione, come spesso si dice o si
traduce, ma di constatazione e lamento! Constatazione che chi è ricco,
sazio e gaudente non capisce, non comprende (cf. Sal 49,13.21), non sa
di andare verso la rovina e la morte, una morte che vive già nel
rapporto con i propri fratelli e le proprie sorelle. Questi “guai” sono
eco degli avvertimenti dei profeti di Israele (cf. Is 5,8-25; Ab
2,6-20), sono un richiamo a mutare strada, a cambiare mentalità e
comportamenti, sono un vero invito alla vita autentica e piena.
Se ha una vita fedele e conforme a Cristo, il cristiano non si
attenda che gli vengano tolti i sassi dal cammino. Al contrario,
facilmente gli verranno scagliati addosso: se infatti è “giusto”, sarà
odiato e non si sopporterà neppure la sua vista (cf. Sap 1,16-2,20).
Ricordiamo infine anche il “guai, quando tutti diranno bene di voi”,
perché come Gesù è stato “segno di contraddizione” (Lc 2,34), così lo è
il cristiano, se è conforme a lui.