Un aspetto del mistero dell’incarnazione di cui la prima domenica
dopo Natale consente l’approfondimento ruota attorno al fatto che Gesù
nasce e cresce in un ambiente familiare, sociale, culturale e religioso
specifico. In particolare, viene evidenziata la trasmissione di vita dai
suoi genitori (cf. Lc 2,27) al bambino Gesù: la vita dei suoi genitori,
in questa fase di totale dipendenza da loro, è la sua stessa vita. Essi
gli fanno vivere la fedeltà che egli vivrà a sua volta, in futuro,
all’interno della sua vocazione personalissima, portandolo al tempio,
obbedendo alla Torah, mostrandosi sottomessi al Signore. Anche Giuseppe e
Maria preparano la via del Signore: con la loro fede, con il loro
amore, con la loro obbedienza. Il testo è cristologico, e tuttavia da
esso traspare, in prospettiva ermeneutica, il problema della
responsabilità educativa dei genitori e il nodo del rapporto tra
famiglia e comunità. La famiglia arricchisce la comunità e la comunità
sostiene la famiglia nel proprio faticoso cammino umano e di fede.
Il nostro testo poi afferma ciò che dovrebbe un dato ormai acquisito
da parte dei cristiani, ovvero l’ebraicità di Gesù, la perdurante
ebraicità di Gesù, come affermato nel documento del 1985 Sussidi per una
corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e
nella catechesi della Chiesa Cattolica ad opera della Commissione per i
rapporti religiosi con l’Ebraismo: “Gesù è ebreo e lo è per sempre”.
L’ebraicità di Gesù non è solo una elementare verità storica, ma la
modalità di fondo di tutta la sua esistenza, il suo modo di vivere,
pensare e credere. Qui vediamo Gesù nel contesto famigliare, colto nel
suo “crescere e fortificarsi” (Lc 2,40), portato dai “suoi genitori” (Lc
2,41), Mirjam e Josef, al tempio di Gerusalemme in occasione della
purificazione della madre a quaranta giorni dalla nascita (Lc 2,22; Lv
12,2-4). Luca specifica che i genitori offrono in sacrificio, secondo la
Torah, una coppia di tortore o di giovani colombi: si tratta
dell’offerta che fanno i poveri che non possono permettersi di
acquistare un agnello (Lv 12,8 e 5,7). La letteratura rabbinica ne
parlava come dell’“offerta del povero” (qorban cani). Il riferimento
alla crescita di Gesù rinvia all’educazione che egli ha ricevuto e che
trovato nella famiglia, ma anche nella Sinagoga due luoghi decisivi.
Anche l’ambiente galilaico in cui Gesù è cresciuto è importante per
caratterizzare la sua ebraicità (cf. Mt 26,69: “Gesù, il Galileo”).
Il testo presenta anche l’incontro tra generazioni mostrando
l’accoglienza del bambino da parte degli anziani Simeone e Anna.
L’attesa obbediente di Simeone diviene capacità di accoglienza: “Simeone
accolse il bambino tra le sue braccia e benedisse Dio” (Lc 2,28):
accolto da Maria nel suo seno, ora Gesù è accolto tra le braccia di
Simeone, uno dei poveri del Signore, uomo di attesa e di fede. E mentre
lo accoglie nelle sue braccia non lo trattiene, ma lo confessa come dono
di Dio destinato non solo a Israele, ma anche a “tutti i popoli” (Lc
2,31). La preghiera e il digiuno perseveranti di Anna, la profetessa, la
rendono capace di discernere nel bambino il Messia atteso. Preghiera
assidua, discernimento, lode e ringraziamento sono gli elementi
spirituali che caratterizzano la figura di Anna. E se Maria aveva
cantato le meraviglie compiute da Dio in lei, ora
Anna, alla vista del bambino, loda Dio per il suo intervento. Questo
incontro è particolarmente commovente e pregnante in quanto mostra
l’incontro tra il crepuscolo di due vite, quelle di Simeone, ormai
prossimo alla morte (Lc 2,26.29) e di Anna, vedova di ottantaquattro
anni (2,37), con l’alba dell’esistenza di Gesù, che ha poche settimane
di vita. Colpisce, in questi due anziani, la capacità di accoglienza del
nuovo, la capacità di far spazio in sé alla novità operata da Dio e che
essi hanno saputo attendere con pazienza. La loro perseveranza e la
loro fedeltà non li hanno induriti o isteriliti, ma resi dioratici,
capaci di discernimento, di tenerezza, di accoglienza, di amore. È
possibile invecchiare bene.
Al Tempio avviene l’incontro tra persone semplici. I genitori di Gesù
che, nella loro fede popolare e semplice, adempiono usanze legali e
precetti religiosi, e un uomo anch’esso semplice, che al tempio si reca
guidato dallo Spirito. A questo livello della fede semplice e pura, ciò
che prevale è l’umano, il buon senso che pone l’umano al primo posto,
l’umano come scopo dei riti e delle usanze religiose, l’umano come luogo
e fine dell’azione dello Spirito. E tutto avviene nel quadro di un
incontro umano, non di un rito. Prima dell’azione liturgica prevista,
dunque fuori da un quadro cultuale, in un contesto spaziale del tempio
in cui anche le donne potevano ancora entrare, avviene l’incontro tra la
madre e il padre di Gesù, e l’anziano profeta. In verità un profeta
nascosto. Un profeta quotidiano, cioè un uomo di fede e di speranza, un
uomo di preghiera, un uomo abitato dallo Spirito di Dio, un uomo di Dio,
ma senza la popolarità e la notorietà di diversi profeti. Un profeta
nascosto, umile, non gridato, che viene quasi scovato, rivelato, fatto
uscire all’aperto, da Gesù stesso. L’incontro di queste persone è
incontro nella piccolezza e nell’umiltà, incontro di gente semplice,
incontro in cui chi cercava l’adempimento legale trova la rivelazione
dello Spirito, chi attendeva la consolazione di Israele discerne la
salvezza di Dio nel bambino. E allo stupore dei genitori di Gesù al
sentire ciò che si dice del loro bambino (Lc 2,33) corrisponde la
meraviglia di Simeone che tali parole pronuncia su quel bambino. Simeone
è anche uomo di stupore che conserva la meravigliosa facoltà dello
stupore anche verso la fine della vita.
L’incontro tra Simeone e il bambino è l’incontro di due debolezze: la
debolezza dell’uomo anziano e la debolezza dell’infante. Gesù, infans,
ancora non parla, ma può solo essere parlato. E da Simeone è parlato,
così come è visto e toccato, accolto nelle braccia. La Scrittura ha già
parlato per lui e all’anziano Simeone basta la testimonianza delle
Scritture, basta ciò che ha letto e ascoltato nelle Scritture per
discernere nel bambino la salvezza di Dio. All’impotenza del bambino
corrisponde la non volontà di possesso da parte dell’anziano, il non
voler avere un potere su di lui: Simeone è abitato dalla capacità di
amare nella libertà e in modo liberante.
Al cuore del nostro brano evangelico troviamo poi la preghiera del
Nunc dimittis, ovvero, il breve inno che la chiesa fa pregare a
compieta, alla fine del giorno, come ultime parole di fede prima di
entrare in quel sonno che è simbolo della morte. E il Nunc dimittis è
anche il canto della sera della vita, pronunciato da un Simeone ormai
prossimo alla morte. Il testo non dice esplicitamente che Simeone sia
anziano e nemmeno viene specificata la sua età: è licenza poetica quella
che porta Thomas Stearns Eliot a parlare di Simeone come di “un uomo di
ottant’anni che non ha domani”. Tuttavia, il parallelismo con Anna
stessa, la prossimità con figure come Zaccaria e Elisabetta, presenti
nel primo capitolo del vangelo secondo Luca, di cui si dice che erano
“avanti negli anni” (Lc 1,7), la sua prossimità con la morte, il fatto
che egli abbia alle spalle una vita che gli ha meritato la
considerazione di “uomo giusto e pio” (potremmo tradurre: “giusto e
timorato”), tutto questo sta a indicare la condizione di anzianità di
Simeone. Prossimità della morte e condizione di vecchiaia: il Nunc
dimittis, sembra voler sfidare due dei maggiori tabù culturali del
nostro tempo, impegnato com’è, quest'ultimo, a rimuovere il pensiero
della morte e a cancellare con ogni mezzo le tracce della vecchiaia dal
corpo umano.
La preghiera di Simeone è un rendimento di grazie: egli loda e
ringrazia Dio. Ecco un altro segno del beato invecchiamento di Simeone.
Non avanza pretese, non si lamenta, non è autocentrato, ma ringrazia,
riconoscendo che la sua vita è stata segnata da doni e promesse, che c’è
un passato per cui dire grazie e un futuro a cui dire “sì”. Anche il
futuro imminente che è la sua stessa morte. “Simeone benedisse dicendo”.
Con la parola Simeone fa fronte alla morte e nutre la
propria speranza. Con la parola egli fa qualcosa della propria morte.
E la preghiera di Simeone si concentra sul momento presente: “Ora”,
nûn. Essa sintetizza il passato, il tempo della preparazione della
salvezza, anticipa il futuro dell’illuminazione dei popoli pagani, ma
trova nell’oggi, nel frammento di tempo presente, quello in cui il
bambino viene presentato al tempio, il momento di sintesi, il momento in
cui sgorga il ringraziamento. In quel momento tutto il passato viene
accolto, l’attesa viene confermata, e il futuro viene rilanciato. Nelle
parole di Simeone, che sono una preghiera rivolta al Signore e “padrone”
(in greco Despótes) della vita, la morte appare come un licenziamento,
un congedo dal servizio, dalla lunga militanza di una vita. Vi è sia il
senso della liberazione dello schiavo sia il congedo dopo un servizio,
sia, soprattutto, il permesso di partire, di morire. “Sì, Signore, ora
tu puoi lasciare andare il tuo servo nella pace”. L’uomo giusto e
timorato si appresta a vivere una morte nella pace.
Così il mistero della nascita illumina anche l’enigma della morte.
Il vangelo in poche parole