Seconda Domenica di Quaresima. Il Tabor e ..
noi! Gesù ci insegna che il Tabor non è il luogo dove si vive, ma dove
ritroviamo coraggio per le scelte della pianura, dove, in ogni luogo e
in ogni momento, il Signore chiama: "Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò".
L'andamento della parola di Dio delle domeniche di Quaresima è
sempre lo stesso, perciò come sempre dopo le tentazioni di Gesù, ci
viene proposta la sua trasfigurazione. Per comprendere il perché di
questa scelta, è necessario tradurre il generico incipit: "in quel
tempo" con "sei giorni prima". Infatti "sei giorni prima" di quanto accade nell'episodio che ci viene raccontato, Gesù aveva cominciato a "spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno". Cioè, le tentazioni del deserto sarebbero arrivate al punto più alto e decisivo.
Alle sue parole, I discepoli erano rimasti esterrefatti, tanto che
Pietro, mettendosi inconsapevolmente nella parte del tentatore, si era
preso un raggelante rimprovero. Dopodiché Gesù, come se non bastasse,
aveva preannunciato che i suoi discepoli avrebbero dovuto affrontare il
suo stesso percorso: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua".
Esterrefatti i discepoli, e preoccupato anche Gesù, che, come racconta
l'evangelista Luca, per prendere la "ferma decisione di mettersi in
cammino verso Gerusalemme" (Lc 9,51 ) dovette tirare fuori tutte le sue
energie spirituali.
In questo momento così arduo in cui Gesù e i suoi discepoli, come
Abramo, sono chiamati a "lasciare terra, parentela, casa", il Padre, che
aveva mandato "gli angeli a servirlo" nel deserto (Mt 4,11), e che gli
manderà l'angelo a consolarlo nell'orto degli ulivi (Lc 22,43), adesso
gli manda Mosè ed Elia (due personaggi esistiti in vista di lui) e lo "trasfigura", donandogli un lampo della gloria futura, assicurandogli la sua predilezione, e incoraggiando i suoi discepoli ad ascoltarlo: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo".
Affascinati da quel lampo di gloria, Pietro, Giacomo e Giovanni
avrebbero voluto rimanere per sempre lassù, dove non ci sarebbe stato da
soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli
scribi. Lassù tutto era bello e facile, brillante come il sole e candido
come la luce.
Invece bisognava scendere, perché il Tabor non è il
luogo dove si vive, ma dove ritrovano coraggio le scelte della pianura,
dove, in ogni luogo e in ogni momento, il Signore chiama: "Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò".
Noi come Abramo, come Gesù, come i suoi discepoli?
Sì,
anche se il paragone ci spaventa non poco, e naturalmente fatte le
debite proporzioni. Per noi lasciare la nostra parentela, la nostra
casa, la nostra terra per andare a Gerusalemme significa lasciare il
nostro modo di vivere la parentela, la casa, la terra, credendo non a
quello che vediamo e tocchiamo, ma fidandoci di una promessa che non ci è
dato verificare: "Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione".
San Paolo chiama tutto questo: "soffrire per il vangelo", e ci invita a seguire il suo esempio. Dove trovare questa forza? Non in noi stessi, ma, come afferma l'apostolo, nella "forza di Dio", che sicuramente non ci farà mancare il suo incoraggiamento, come ha fatto con Gesù su l'alto monte.
Vangelo e fotografia (da www.monasterodibose.it)
Zohreh Saberi, Into the Light (Dentro la luce), foto racconto del novembre 2015 a Babol, Mazandaran, Iran.
Trasfigurare vuol dire guardare le cose come se fossero nuove, ricche
di nuovi aspetti ed espressioni.Utilizzeremo la narrazione fornita da
un fotoracconto, quindi una serie di immagini realizzate e selezionate
da un fotografo in successione per raccontare all'occhio
dell'osservatore una storia.
Zohreh Saberi, è una giovane fotografa iraniana di poco più di
trent’anni. Il suo fotoracconto ci narra le giornate di Raheleh, 13
anni, cieca dalla nascita che vive in un villaggio rurale dell’Iran.
L’immagine che vi racconto è quella in cui Raheleh è alla finestra ed
aspetta che sorga il sole.
L’immagine è costruita con sapienza: il volto della ragazza si
mescola con il paesaggio. Il viso occupa la metà precisa
dell’inquadratura, siamo alla sua altezza, noi la stiamo osservando e
lei non lo sa, il resto dell’immagine è specchiata dal vetro.

Composizione della foto
Il
gioco di riflessi della finestra dalla quale Raheleh è ritratta funge
da rivelatore dei suoi pensieri. L’immagine non ci dice che Raheleh è
cieca, ci fa vedere una ragazza assorta con gli occhi chiusi. L’immagine
rarefatta dell’orizzonte con il sole nascente ci fa entrare nei suoi
pensieri, lei sta immaginando quel panorama. Noi osservatori, grazie
alla bravura della fotografa, siamo portati ad immaginare ciò che lei
pensa (questo è dovuto al fatto che l’immagine rarefatta viene subito
affiancata all’idea di sogno o di pensiero nel nostro immaginario), ma
la realtà è molto diversa. Lei realmente non lo può vedere, per lei ha
un altro significato. Lei non sa come è fatto quel paesaggio, anzi per
la precisione lei lo vede diversamente da noi e questo non lo rende meno
vero e reale.
Raheleh ama sentire il calore del sole sul viso, così scrive la
fotografa, percepisce con millimetrica attenzione lo spuntare del sole
attraverso il tepore che la accarezza.
Quante volte i paesaggi che attraversiamo, i visi che incrociamo ci
sembrano troppo quotidiani e quindi banali e non siamo più capaci di
trasfigurarli ovvero di percepirli come un dono, qualcosa che non è
scontato e di cui dobbiamo essere grati?
La quotidianità si può trasformare in qualcosa di nuovo se la nostra percezione cambia.
Raheleh con il suo viso assorto ci insegna proprio questo, che il
sorgere del sole non è scontato, sentire il suo calore non è automatico,
fermarsi a ringraziare per la giornata che comincia può trasfigurare il
nostro sguardo.
Raheleh non vede il mondo, lo percepisce con cura, lo tocca, lo sfiora, lo assapora, ci insegna a trasfigurarlo.