Nati nella "religione", rinati alla "fede".
È sempre accaduto nella storia, anche recente, anche
recentissima, che i capopopolo quando si accorgono che una folla
numerosa li segue, si entusiasmano, si montano la testa, danno la stura a
tutte le promesse possibili, anche alle più fantasiose, come quelle
della barzelletta (speriamo!): "Vi costruiremo il ponte!", "Ma il fiume
non c'è", "Bene! Costruiremo anche il fiume".
Gesù, come sempre, è l'esatto contrario: «Una folla numerosa
andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: "Se uno viene a me e non mi
ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio
discepolo"». Non poteva trovare parole migliori per far
scappare via tutti. Tutti quelli che si accodano, che alzano la mano se
la alzano gli altri, che sono canne che si piegano nella direzione del
vento.
"Ma è possibile seguire uno che pretende di essere amato più dei familiari e addirittura della propria vita?".
Sì,
se questo non significa non amare le persone più care, ma amarle senza
farne un idolo contrapposto all'unico Signore, cadendo nel "tengo
famiglia" con il quale ci si chiude agli altri che non fanno parte della
cerchia, e a tutto ciò che non procura vantaggi, fossero anche ottenuti
furbescamente o ingiustamente.
Che questa scelta non sia per niente
facile è Gesù è il primo a saperlo. Infatti con le due brevi parabole
dell'uomo che prima di costruire una torre, verifica se ha i mezzi per
farlo; e del re che prima di fare la guerra si assicura che il nemico
non sia troppo forte, invita a una scelta ponderata e ragionata.
E noi cristiani per nascita?
Per noi che questa
scelta ponderata e ragionata di amare Gesù più dei familiari e
addirittura più della propria vita non l'abbiamo fatta, perché, nati
nella "religione" cristiana, abbiamo acquisito i suoi riti, le sue
credenze, i suoi precetti morali per convenzioni sociali e non per
convinzioni personali è fondamentale passare da una fede trovata a una
fede scelta, trasformando le convenzioni in convinzioni. Impegno non
soltanto arduo, ma urgente, perché la vita di oggi in tumultuoso e
caotico cambiamento azzera velocemente anche le tradizioni più longeve e
radicate non sostituite da scelte personali.
Questa "conversione" ci spaventa non poco, perché tirare avanti la
pratica religiosa e una vita da persone perbene è molto diverso dal
prendere sul serio l'affermazione di Gesù: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo».
Ma come si fa? Vivere sempre con la croce sulle spalle non diventa una
triste quaresima possibile soltanto dentro a conventi e sacrestie? Nella
vita vera non ci renderebbe una specie di extraterrestri?
Che la fede in Gesù renda in qualche modo stranieri – nel mondo ma non del mondo – è inevitabile, ma "la croce"
che siamo invitati a portare non significa rassegnarsi a rinunce e
penitenze – purtroppo molto spesso ci è stata presentata così -, bensì cercare e costruire la sua gioia, la sua pace, la sua giustizia, anche se comporta fatica e sofferenza.
Questo impegno, liberamente e consapevolmente scelto, a volte può
richiederci gesti forti e clamorosi, che possono sembrare al di fuori
della nostra portata, che comunque lo sarebbero se Gesù non camminasse
con noi. Normalmente, però, esso consiste nel gettare semi di
gioia, di pace, di giustizia, di verità nel nostro quotidiano,
confidando che essi trovino il terreno buono per germogliare, crescere,
portare frutto.
È incoraggiante l'esempio di san Paolo. Avrebbe
potuto scrivere una lettera tonante per dimostrare al mondo pagano che
la schiavitù era da abolire. Rimandando uno schiavo fuggito all'amico
Filemone, in un bigliettino ha scritto: «Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso», non è uno schiavo ma un uomo come me. E il mondo ha iniziato a capire che la schiavitù andava abolita.
Se lo vogliamo, di bigliettini così ne possiamo scrivere tanti anche noi.