Dopo la lettura del capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni,
lungo cinque domeniche, lettura che è stata una vera catechesi su Gesù
quale “parola e pane della vita”, ritorniamo alla proclamazione cursiva
del vangelo secondo Marco. Lo avevamo lasciato con il racconto della
prima moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44), lo riprendiamo al
capitolo settimo, dove Gesù entra in controversia con alcuni scribi e
farisei.
Costoro sono “venuti da Gerusalemme” in Galilea, come già era
avvenuto quando, durante una discussione con Gesù sul suo potere di
scacciare i demoni, lo avevano giudicato posseduto dal principe dei
demoni e ne avevano condannato l’operare (cf. Mc 3,22-30). Ora invece
contestano la condotta concreta dei discepoli di Gesù e ne chiedono
conto alla loro rabbi. Il problema riguarda l’halakah, la pratica di
precetti e prescrizioni ricevuti dalla tradizione e, nello specifico, il
fatto che i discepoli prendono il loro pasto (lett.: “mangiano dei
pani”) senza essersi lavati le mani, dunque con mani impure (aggettivo
koinós). In verità la Torah, la Legge, rivolgeva il comando
dell’abluzione rituale delle mani solo ai sacerdoti che al tempio
facevano l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Ma al tempo di Gesù
vi erano movimenti che radicalizzavano la Torah e moltiplicavano le
prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema
della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e i
perushim (separati, farisei), i quali consideravano molto importante la
prassi del lavarsi le mani e di altre abluzioni in vista della purità,
che poteva essere infranta a causa di contatti con persone o realtà
impure.
Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non
erano state richieste da Dio, ma imposte dagli interpreti delle sante
Scritture, i quali le dichiaravano “la tradizione”, attribuendole la
stessa autorità riservata alla parola di Dio. Gesù faceva un’attenta
operazione di discernimento, distinguendo bene ciò che era espressione
della volontà di Dio e ciò che invece era consuetudine umana, norma
forgiata dagli uomini religiosi che, assolutizzata, diventa un ostacolo
alla stessa parola di Dio e una perversione della sua immagine. La Legge
deve ispirare il comportamento ma, con il passare del tempo, le
consuetudini e le osservanze rischiano di contraddire il primato della
Parola, la sua centralità nella vita del credente. E sovente quanti
invocano le tradizioni, rendendole “la tradizione”, lo fanno perché sono
proprio loro ad averle pensate e create. In questo caso, però, anziché
essere a servizio dell’uomo e della sua relazione di comunione con Dio,
queste norme finiscono per essere alienanti, soffocano la libertà dei
credenti, erigono barriere e tracciano confini tra gli esseri umani.
Di fronte a queste contestazioni di scribi e farisei, Gesù risponde
attaccandoli: “Ipocriti, Isaia ha detto bene di voi, come sta scritto:
‘Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono solo precetti
umani’ (Is 29,13). Sì, voi trascurate il comandamento di Dio per aderire
alla tradizione degli uomini”. Gesù conferma l’ammonizione rivolta dal
profeta al popolo di Gerusalemme e denuncia l’ipocrisia della distanza
tra labbra che aderiscono a Dio e cuore che invece ne resta lontano. In
quegli scribi e farisei vi era certamente la frequenza al culto,
l’assiduità alla liturgia, la confessione verbale del Dio vivente, ma
mancava un’autentica adesione del cuore, quella che chiede di realizzare
ciò che si dice con le parole. È questione di unità della persona, di
un cuore unito, non diviso, non doppio (cf. Sal 12,3)!
La critica di
Gesù si fa aspra e radicale: “Annullate la parola di Dio con la
tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7,13). La volontà di Dio è
misconosciuta, messa da parte, contraddetta, mentre il primato viene
riservato alla pretesa tradizione. Proprio per questo il discernimento
si fa urgente anche da parte del cristiano, e tale operazione si compie
innanzitutto passando ogni osservanza e ogni prescrizione al vaglio del
Vangelo, della parola e dell’azione di Gesù, e, di conseguenza, non
dimenticando mai che è la carità il criterio ultimo capace di
determinare la bontà o la perversione di ciò che viene richiesto.
Scriveva Isacco della Stella, il grande abate cistercense del XII
secolo: “Il criterio ultimo di ciò che deve essere conservato o cambiato
nella vita della chiesa è sempre l’agápe, la carità”.
Gesù non ha mai contraddetto la Legge e le sue esigenze sulla volontà
di Dio, anzi è sempre risalito all’intenzione del Legislatore, di Dio
stesso, come già i profeti, affinché la Legge fosse accolta con il cuore
e osservata nella libertà, con convinzione e amore. Ma di fronte alla
tradizione e al moltiplicarsi dei suoi precetti, Gesù chiede ciò che
egli stesso ha operato: il discernimento. La moltiplicazione dei
precetti, infatti, accresce la possibilità di non osservarli, aumentando
le occasioni di ipocrisia. “La parola del Signore rimane in eterno”
(1Pt 1,22; Is 40,8), mentre le tradizioni evolvono in base ai mutamenti
culturali e alle generazioni; e, seppur venerabili a causa
dell’antichità, restano umane, involucro e rivestimento della parola di
Dio.
Dopo aver indicato alcuni casi di contraddizione alla legge di Dio
compiuti in nome dell’osservanza di precetti umani (cf. Mc 7,10-13),
Gesù torna a rivolgersi alla folla chiamata attorno a sé e dice:
“Ascoltatemi tutti e comprendete in profondità!”. Apertura autorevole e
solenne che, in parallelo all’avvertimento conclusivo (“Se qualcuno ha
orecchi per ascoltare, ascolti!”: Mc 7,16), mette in rilievo le parole
rivelative di Gesù: “Non c’è nulla di esterno all’uomo che, entrando in
lui, possa renderlo impuro. Sono invece le cose che escono dall’uomo a
renderlo impuro”. Parole brevi e apodittiche. Non c’è niente che possa
rendere impuro il discepolo tra le realtà che sono fuori del suo corpo:
né il cibo, né il contatto, né le relazioni. Ciò che invece rende impuro
l’uomo viene dal suo interno e si manifesta nel suo comportamento. Si
faccia attenzione e non si finisca per opporre, sulla base di queste
parole di Gesù, interiorità ed esteriorità, che in ogni essere umano
sono dimensioni inseparabili. Per Gesù, come per tutte le Scritture, “il
male, il peccato è accovacciato alla porta” (cf. Gen 4,7) del cuore di
ogni uomo e dal cuore è generato fino a manifestarsi nei sentimenti,
nelle parole e nelle azioni.
Questo insegnamento di Gesù appare però in contrasto con le
preoccupazioni di molti scribi, che insistevano soprattutto sul
comportamento esteriore. Le sue parole non sono facilmente
comprensibili, dunque egli è costretto, una volta ritornato in casa,
lontano dalla folla, a rimproverare i discepoli perplessi e a
esplicitare i nomi delle pulsioni, dei pensieri e dei propositi che
rendono impuri: una lista impressionante di peccati, una delle più
dettagliate di tutto il Nuovo Testamento. Significativamente, però, essa
riguarda i peccati consumati contro l’amore, contro il prossimo, perché
il peccato si innesta sempre nei rapporti tra ciascuno di noi e gli
altri (cf. Mt 25,31-46), nelle relazioni: è nei rapporti umani che la
legge di Dio chiede carità, misericordia, sincerità e fedeltà. Il male,
l’impurità non sta nelle realtà terrene ma sta in noi, là dove noi
affermiamo solo noi stessi e non riconosciamo gli altri.
Infine,
tenendo conto del fatto che l’intera controversia nasce da una questione
relativa alla tavola, si può trarre dall’intero ragionamento di Gesù un
importante monito: non possiamo escludere nessuno dalla tavola e, se lo
faremo, saremo esclusi noi dalla tavola del Regno! Quanto poi alla
tavola eucaristica, non ne è escluso chi è peccatore, si ritiene tale e
porge umilmente la mano come un mendicante verso il corpo del Signore,
mentre dovrebbe sentirsi escluso chi non sa discernere il corpo di
Cristo (cf. 1Cor 11,29) nel fratello e nella sorella, nel povero, nel
peccatore, nell’ultimo, nel senza dignità.
Il vangelo in poche parole