Franco Garelli è stato professore ordinario di
Sociologia dei processi culturali e di Sociologia delle religioni
all’Università di Torino. Ma, soprattutto, è un sociologo che, con
grande competenza e serietà, da molti anni aiuta a decifrare le
trasformazioni in atto nella complessa e multiforme realtà religiosa
italiana. I suoi testi, tutti editi dal
Mulino di Bologna, (
I giovani, il sesso e l’amore, 2000,
L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo 2006,
Religione all’italiana 2011,
Piccoli atei crescono 2016)
sono mappe importanti per capire le trasformazioni di un Paese che, con
troppa superficialità, continuiamo a considerare “cattolico”. Così è
anche per il volume pubblicato all’inizio del primo lockdown, nel marzo
scorso: “
Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, Il Mulino, pagine 264, euro 16
).
Un testo prezioso, da leggere, soprattutto dopo questi ultimi mesi che
hanno visto da una parte emergere un senso religioso più accentuato e
dall’altra un legame con la chiesa cattolica e le sue pratiche segnato
da fatica e stanchezza.
Professor
Garelli, da molti anni lei è uno degli osservatori più acuti dei
cambiamenti che stanno avvenendo nel nostro Paese attorno al sentimento
religioso. Quali sono i più evidenti?
La persistenza del sentimento religioso in Italia è un fenomeno che incuriosisce e desta sorpresa. Si
tratta di un sentire ancora diffuso nella popolazione e che si muove in
controtendenza rispetto alla maggior parte degli indicatori di
religiosità (come la frequenza ai riti comunitari, l’adesione al credo
cristiano, la preghiera ecc.) che da alcuni decenni sono orientati
verso il basso. Oltre la metà degli italiani riconosce ancor oggi di
vivere in un mondo di mistero, che si manifesta nell’avvertire di tanto
in tanto che c’è un Dio che vigila sulla propria vita e la protegge; o
nella sensazione che alcune vicende personali contengano dei messaggi
che giungono dall’Alto. Oltre a ciò, poco meno del 30% dichiara di aver
ricevuto nella propria esistenza una grazia o dei benefici straordinari
di origine divina. Ecco i principali segni di una tonalità
religiosa che sembra scaturire più da un rapporto diretto e personale
col sacro che dalla mediazione della religione di chiesa; e che
può essere ricondotto ai tempi non facili che stiamo vivendo, alle
tensioni di un’epoca carente di certezze, densa di inquietudini e
paure.(1) Occorre notare che non si tratta di pensieri coltivati
soltanto dalla religiosità popolare (che nel nostro
Paese è assai vivace), ma che coinvolgono anche soggetti inseriti a
pieno titolo nella società avanzata, che risiedono nelle regioni più
dinamiche e sviluppate. Quella descritta non è comunque l’unica apertura
al senso del mistero che si coglie nelle ricerche più recenti. Circa
l’80% degli italiani ritiene oggi che “credere in Dio sia un bisogno
dell’uomo”, e quasi il 70% che “non sia anacronistico avere una fede
religiosa nella modernità avanzata”. Si tratta di convinzioni assai
diffuse tra i credenti, ma espresse anche da circa la metà delle persone
“non credenti”, le quali dunque ammettono la legittimità di un’opzione
ultima (per l’uomo contemporaneo) anche se la cosa non li riguarda.
Chi è
oggi il cattolico? Come è cambiato nel corso di questi decenni? Può
fornirci, facendo riferimento alle sue ricerche, un identikit che ne
mostri le caratteristiche?
A questa domanda non si può rispondere al singolare, essendo la
varietà cattolica una costante di un Paese che ha alle spalle una lunga
e preminente tradizione religiosa. Oggi, come ieri, ci troviamo di
fronte a diverse ‘sensibilità’ cattoliche, in quanto
anche in un’Italia religiosamente più aperta e plurale (in cui crescono
sia le posizioni atee e agnostiche sia i fedeli di altre confessioni
religiose), il legame cattolico si mantiene comunque maggioritario; pur
un po’ ridimensionato rispetto a 20-30 anni or sono. Nella mia ultima
indagine colgo – tra le varie “anime” cattoliche – due profili
prevalenti. Da un lato vi è una minoranza di credenti-cattolici ‘convinti e attivi’,
quelli più vicini agli ambienti ecclesiali, che frequentano con maggior
assiduità, che più interpretano la fede come un principio vitale e
esprimono una particolare sensibilità sui temi della famiglia, della
bioetica della solidarietà, dell’educazione; parte dei quali alimenta il
tessuto delle varie parrocchie, comunità, reti di volontariato. Si
tratta della cosiddetta “sub-cultura cattolica”, in cui rientra il 20%
circa della popolazione, che non sembra subire particolari variazioni
col passare degli anni. Dall’altro, vi è il folto insieme di italiani che si definiscono cattolici più per ragioni ‘culturali’ e ‘ambientali’ (per
il fatto di essere nati e cresciuti in un contesto cristiano) che per
specifiche convinzioni religiose e spirituali. E’ questo lo stile
cattolico oggi più diffuso, quello che più è cresciuto negli ultimi
decenni, proprio in un periodo in cui l’Italia ha conosciuto un più
accentuato pluralismo religioso. Come a dire che in un Paese che diventa
sempre più multiculturale e multi-religioso, una quota consistente di
popolazione sembra spinta da questa alterità religiosa a riaffermare i valori della tradizione.
Questo cattolicesimo cultural-anagrafico non si segnala per grandi
slanci spirituali. Ma ciò non impedisce che chi lo esprime ritenga che
la fede cristiana sia un valore di fondo della propria famiglia; o che
sia utile dare ai figli un’educazione cristiana; o che sia importante
servirsi della chiesa per solennizzare i riti di passaggio.
Di
fronte alle trasformazioni in atto che spaventano molti, il rischio è di
trasformare la fede cattolica come baluardo identitario della
tradizione. “Cattolicesimo culturale”, lei lo definisce.
Il rischio c’è indubbiamente. Perché si tratta di un profilo
cattolico che sembra ancorarsi ai valori e alla fede della
tradizione più per motivi esterni che interiori, più per la paura del nuovo che avanza che per specifiche convinzioni.
Un cattolicesimo, dunque, che oggi accentua la sua matrice identitaria
(etnico-culturale), connessa al fatto che “le identità religiose altrui
sollecitano le proprie”. Quello inoltre che guarda con maggior favore ai
simboli cristiani che tornano alla ribalta della cronaca politica;
quindi più sensibile ai messaggi oggi lanciati dalle forze sovraniste.
E’
evidente quanto, da tempo, sia saltata la trasmissione della fede. La
fatica degli adulti a credere è anche, e ancora di più, la fatica delle
nuove generazioni. Cosa è accaduto?
La fede cristiana oggi non ha più l’evidenza collettiva del passato,
quando era tutto il contesto a favorire un orientamento religioso, una
prospettiva di fede (e di fede cristiana). Quella cattolica era la
cultura comune della nazione, alimentata sia dalla pratica assidua dei
fedeli, sia da un insieme di realtà (famiglia, scuola, associazioni di
tempo libero) che formavano in questa direzione le nuove generazioni.
Nel tempo, questo modello di società si è incrinato, a fronte di
cambiamenti strutturali e culturali che hanno ridimensionato l’influenza delle istituzioni religiose
sia a livello pubblico che sulle coscienze. Ieri, si viveva in una
società in cui era ‘normale’ credere in Dio e frequentare i riti
comunitari; mentre oggi è assai diffusa la consapevolezza che quella
religiosa sia un’opzione tra le tante.(2) Di qui, dunque, le difficoltà
di trasmissione della fede che si avvertono nel tempo presente. Dovute
al fatto che non si vive più in un mondo di destino, ma in un mondo di
scelte; in una società che anche dal punto di vista religioso è abitata
da molte fonti di senso e dall’ampia libertà e possibilità delle persone
di scegliere i propri percorsi di salvezza (anche solo umana).
Circa il passaggio o meno del testimone della fede, risulta dalle indagini che è più
facile trasmettere da una generazione all’altra la “non credenza” o una
“credenza debole” che un orientamento religioso più impegnato.(3)
Ciò non toglie, tuttavia, che i giovani più attivi e convinti dal punto
di vista religioso siano quelli che hanno alle spalle famiglie credenti
impegnate ed esperienze religiose significative. Una parte dei giovani
“senza Dio” e “senza religione” risultano tali per nascita, essendo
figli di genitori ‘non credenti’. Ma non sono pochi i giovani oggi
ateo-agnostici che hanno un passato religioso fatto di corsi di
catechismo, di frequenza di parrocchia e oratori, di esperienze
formative negli ambienti ecclesiali. L’ateismo o l’agnosticismo di
questi giovani sembrano quindi dovuti a una socializzazione religiosa
interrotta, per i motivi più diversi: perché tale esperienza non ha
lasciato particolare traccia nel loro vissuto; perché continuando gli
studi hanno maturato altri orientamenti; per la difficoltà di
riconoscersi in alcune posizioni del magistero in campo religioso o
etico; fors’anche per l’incapacità delle chiese stesse di proporre un
discorso sull’uomo, sulla natura, sulla vita sociale, che sia
significativo per la coscienza moderna.
Ha
scritto che “viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale
della verità e la religione non fa eccezione”. Cosa significa
concretamente? Il pluralismo religioso è una chance per la fede
cristiana o è un pericolo?
Di per sé dovrebbe costituire una sfida feconda per la fede cristiana,
perché il confronto più diffuso con chi non crede, o con chi crede
altrimenti, rappresenta un’occasione sia per approfondire le proprie
convinzioni religiose, sia per meglio purificare la propria espressione
di fede. Tuttavia, una società religiosamente più plurale favorisce anche un diverso approccio alla ‘verità’. A fianco di quanti continuano a riconoscersi nell’idea di una “fede esclusiva” (come unica via di salvezza), si diffonde un “credere relativo” che
tende ad assegnare pari valore a tutte le grandi religioni, che
sottolinea la rilevanza ‘ambientale’ di ogni messaggio/confessione
religiosa, senza la pretesa di operare distinzioni o graduatorie
‘salvifiche’. In parallelo, è ormai consistente la
quota di popolazione che sembra auspicare la nascita di una religione
‘universale’ (unica, globale, ecumenica, pacificata), che si fondi su
ciò che accomuna le principali fedi mondiali, sia a livello di credenze
che di etica.
Quali posizioni assumono i cattolici italiani di oggi di fronte alle sfide etiche?
Molti italiani, e anche una parte consistente dei credenti-cattolici più impegnati, chiedono alla Chiesa di essere meno rigida nel campo della morale personale e famigliare,
anche riconoscendosi perlopiù nello slogan “si può essere dei cattolici
doc pur senza seguire le indicazioni del magistero sui temi etici”.
Questo divario emerge in particolare sulla questione dell’eutanasia,
un’opzione poco considerata nel Paese sino a qualche anno fa, a cui
tuttavia sembrano oggi dar credito circa i 2/3 della popolazione. Questo
strappo culturale dagli indirizzi della Chiesa, già registrato nel
passato sui temi del divorzio, dell’aborto, delle convivenze, non
sembra però estendersi alla sfera della bioetica, a quell’ingegneria
genetica su cui prevale invece un’apertura prudente e vigilante. (4)
Dal suo
osservatorio, quale futuro avrà la dimensione religiosa nella vita delle
persone? Lei sostiene che il sentimento religioso persiste nonostante
il crollo della pratica religiosa.
In molte aree del mondo la dimensione religiosa è assai vivace e vitale,
come vari studi evidenziano. Questa vitalità si osserva anche in
Italia (e in parte in Europa) se si guarda a ciò che succede nelle
minoranze religiose; anche all’interno di quel cattolicesimo impegnato
che è appunto minoritario in una nazione in cui un’ampia quota di
italiani mantiene ancora un legame con la fede della tradizione. Dunque,
la religione del futuro – alle nostre latitudini – sarà sempre più un fenomeno di minoranza? Tutto
sembra andare in questa direzione, anche se si riscontra nell’insieme
della popolazione una diffusa domanda di senso e di punti di
riferimento, che pure ha difficoltà a trovare sbocchi e ad essere
intercettata. Una ricerca di senso ondivaga, che si situa sovente ai
margini delle chiese e del sacro ufficiale, che fatica a riconoscersi
nelle definizioni convenzionali. Perché questa è l’epoca in cui si tende
ad andare oltre gli steccati, in cui si può ammettere di pregare anche
senza essere certi di credere, nel quale l’assenza della pratica
religiosa non significa la fine del bisogno di Dio. E nella quale molti
maturano un rapporto ambivalente con la religione della tradizione,
percepita per un verso come parte della propria storia e per un altro
come una realtà estranea, perchè hanno un contenzioso con la fede e la
chiesa che viene da lontano. Il futuro della dimensione religiosa,
dunque, dipende anche dalla capacità delle comunità credenti di
rispondere a questa domanda di senso instabile, che è un prodotto tipico
della modernità avanzata e riflette la precarietà del tempo in cui
viviamo.
(1) F. Garelli, Cosa è cambiato nel sentimento religioso,
in “Vita Pastorale”, ottobre 2020, Dossier, pp. II e III. Su questi
temi cfr. anche un mio articolo comparso su “SettimanaNews”, 7 maggio
2020.
(2) C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009
(3) F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 50-52.
(4) Un’importante
e assai qualificata riflessione sulle sfide etiche, ma anche su quelle
religiose, che emergono dalla mia ultima indagine sulla religiosità in
Italia, si trova in F. G. Brambilla, Gente di poca fede e di incerta religione? La condizione attuale del cattolicesimo italiano, in “Rivista del clero italiano”, ottobre 2020, pp. 679-712.