Prendo a prestito, seppur con una leggera modifica che mi è
necessaria, il titolo di un prezioso contributo del teologo don Duilio
Albarello, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia
Settentrionale. Il testo, di cui qui presento una sintesi e una
rilettura che focalizza alcuni aspetti interessanti per le nostre
comunità, è contenuto in un libro, curato dal Vescovo di Pinerolo Mons.
Derio Olivero, che raccoglie riflessioni di diversi autori sul tema
della fede cristiana al tempo del Covid e, soprattutto, avanza proposte
per far tesoro di questi tempi difficili nel momento in cui ci sarà il
superamento, speriamo il prima possibile, della pandemia. Il libro, di
cui consiglio fortemente la lettura, si intitola: Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità; a
cura di Derio Olivero, Effatà Editrice, Torino, 2020. La sezione del
libro scritta da don Duilio, oggetto della mia presentazione, occupa le
pagine 97-120.
La pandemia ha sconvolto le nostre esistenze, conducendo la vita
sociale e, conseguentemente, il cristianesimo che ne fa parte, a una
situazione di diaspora, per via delle normative e delle restrizioni che
questo tempo ha reso necessarie. Dinanzi a questa situazione, il ricorso
all’ “andrà tutto bene” non può essere dato per scontato: non è infatti
esclusa la possibilità che, invece di migliorare, peggioriamo fino a
incattivirci e abbruttirci: tutto dipenderà dalla nostra volontà di
lasciarci interpellare dal vissuto, dalle risposte che daremo e dalla
disponibilità che avremo o meno a riconfigurare i nostri valori e le
nostre priorità. Di certo, notiamo che quanto la secolarizzazione
culturale ancora non aveva ottenuto nella sua opera di erosione della
“cristianità”, intesa come la quasi coincidenza tra l’appartenenza alla
comunità ecclesiale e alla società civile, l’ha ottenuto in poche
settimane la pandemia. Il cattolicesimo dell’organizzazione totale è
andato in crisi. E questa, se vogliamo, è una grazia che ci permette di
capire che quella non era l’unica forma di cattolicesimo possibile.
Risulta allora profetica l’indicazione di papa Francesco, contenuta già
nell’Esortazione Apostolica scritta all’inizio del suo pontificato, Evangelii Gaudium,
che auspicava il configurarsi di una Chiesa “in uscita”. Dinanzi alla
pandemia, che molto ha da insegnarci, se intendiamo imparare qualcosa,
si pongono domande concrete su questo tema: uscire da dove, dove e verso dove?
Uscire da dove, innanzitutto. Don Duilio parla della
necessità di abbandonare una “religione dell’esoscheletro”, propria di
chi cerca nella religione, nelle sue istituzioni, norme e dottrine, una
struttura esterna, “che sia capace di tenere in piedi e di nascondere
l’inconsistenza della loro interiorità”. In definitiva, chi vede la fede
in questo modo ritiene che essa riguardi soprattutto la “testa”, perché
la fede viene ridotta all’adesione ad alcune dottrine. Esito di questa
scelta è la caduta in derive pericolose quali il moralismo, il
cristianesimo del “tu devi” che procura al credente soltanto ansia da
prestazione e percezione di insuperabile inadeguatezza e, insieme a
questo, lo spiritualismo, che separa la dottrina dall’esistenza
concreta, riducendo la fede a pratiche religiose che non hanno alcuna
incidenza sulla vita.
Uscire dove. Come ha più volte affermato papa Francesco,
viviamo non semplicemente un’epoca di cambiamento, ma un vero e proprio
“cambiamento d’epoca”. Nella nostra cultura contemporanea, un dato
importante è quello che ci mostra, inequivocabilmente, un’inedita
valorizzazione della libertà. Pensiamo alla libertà nei confronti della
realtà, che la scienza ha reso in parte possibile e che interessa le
riflessioni, ad esempio, della bioetica e dell’ecologia. Pensiamo alla
libertà nei confronti della morale, ben riconoscibile nell’ambito della
vita di coppia, nel matrimonio o nella morale sessuale: è chiaro che,
oggi, “un comandamento che venisse presentato come sostitutivo o
antitetico alla libertà verrebbe immediatamente rifiutato da chiunque
come del tutto inascoltabile”.
Vi è poi una libertà nei confronti della religione: finito il tempo
della cristianità, il tempo nel quale semplicemente si praticava la
religione che veniva professata nella regione del mondo che si abitava, è
oggi necessario garantire la possibilità che l’incontro e l’accoglienza
del Vangelo siano offerti a tutti e in ogni condizione di vita, senza
pregiudizi e senza discriminazioni. Questo è possibile soltanto
acquisendo uno stile capace di ospitalità, che sappia davvero ascoltare,
accompagnare e integrare. Ciò è necessario soprattutto verso chi, dopo
tanto tempo, si riaffaccia alle soglie delle nostre comunità per
introdursi al cammino di fede secondo il Vangelo: queste persone vanno
accolte così come sono, stando attenti che la forma concreta della vita
ecclesiale non rischi subito di suscitare l’impressione di un ambiente
troppo chiuso e troppo poco fraterno.
Uscire verso dove, infine. Occorre oggi una chiesa che non
giochi in difesa, temendo di perdere qualcosa, ma abbia il coraggio dei
grandi esploratori. Scrive don Duilio: “I discepoli del Signore sanno
che non si esce soltanto per dare un’occhiata curiosa senza
coinvolgimento, e neppure si esce per riportare tutti dentro tramite
strategie di proselitismo. Piuttosto, si esce per rimanere fuori, o
meglio per rimanere in diaspora, appunto. L’ambiente vitale della Chiesa
è il “fuori”: sono le periferie esistenziali e sociali, dove si
incontrano gli uomini e le donne in carne ed ossa”.
Questo passaggio è essenziale per un cambiamento di stile, che parte
innanzitutto dalla risposta a una domanda che ci poniamo da decenni: la
missione della Chiesa è anzitutto evangelizzatrice o è anzitutto
promozione umana? Per rispondere a questa domanda, occorre superare la
falsa alternativa secondo la quale l’evangelizzazione e la promozione
umana sarebbero due realtà destinate a nascere e a rimanere distinte.
Papa Francesco, al n. 177 di Evangelii Gaudium, scrive
chiaramente che “il kerigma possiede un contenuto ineludibilmente
sociale : nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e
l’impegno con gli altri”. Non va mai dimenticato che l’evangelizzazione
integrale è promozione umana. Si tratta di vivere quella “mistica della
fraternità” di cui scrive Francesco al numero 87 di Evangelii Gaudium:
essa consiste, scrive il teologo Albarello, in uno “stile basato sulla
disponibilità a uscire da se stessi verso l’altro riconosciuto come
fratello, accolto nella concretezza della sua identità e condizione, per
ascoltarlo e stabilire relazioni evangelicamente significative,
attraverso le quali si rende praticabile la condivisione del potenziale
umanizzante della fede in Cristo”.
Perché questo sia possibile, occorre una conversione che conduca a
una pastorale “generativa”, in quanto la pandemia ha mostrato
chiaramente un limite strutturale della nostra realtà ecclesiale: la
comunità cristiana di oggi continua ad essere maggiormente attrezzata
per aiutare a crescere una fede già esistente, anziché più in radice per
consentire di nascere ad una fede ancora in gestazione.
Ecco dunque il motivo della necessità di una Chiesa “in uscita”: solo
in questo modo potremo non limitarci ad adorare le ceneri di una
“cristianità” ormai in rovina, per adoperarci, finalmente, a tenere vivo
il fuoco del Vangelo.