La parabola degli invitati alle nozze (cf. Mt 22,1-14) è posta da Matteo subito dopo quella dei cattivi contadini che
non restituiscono al padrone i frutti della vigna (cf. Mt 21,33-46). La
dinamica delle due scene è antitetica: nella prima s’impedisce di
entrare, nella seconda ci si rifiuta di farlo; il senso dei due brani è però lo stesso: respingere il Regno dei cieli
(ora simboleggiato dal banchetto di nozze del figlio). Lo si può
attuare sia con la violenza omicida sia con l’omissione (nella seconda
parabola, nonostante le opere violente in essa descritte, a essere messo in evidenza è soprattutto il rifiuto).
«Non fare» non è meno grave del «compiere il male». Non molte pagine
dopo, Matteo lo ribadirà con la grande scena del giudizio, in cui si è
condannati non già perché si è attuato il male, ma perché ci si è
astenuti dal fare il bene («avevo fame e non mi avete dato da
mangiare...»; cf. Mt 25,31-46).
A differenza di Luca (14,16-24, che peraltro pone la parabola
in un altro contesto), Matteo aggiunge una parte finale relativa a chi
non si comporta in conformità all’invito da lui accettato. Anche qui si pone in rilievo un’omissione: non aver indossato l’abito nuziale (cf. Mt 22,12). In virtù della sua collocazione, la parte conclusiva diviene lo snodo cruciale per comprendere la parabola. L’accoglimento implica responsabilità; accettare l’invito comporta indossare l’abito di nozze.
Dopo di allora il giudizio di Dio si fa più esigente. Per essere sicuri
di aver parte alla salvezza non basta dire «gli altri hanno rifiutato,
mentre noi siamo entrati». Una volta preso posto nella sala, occorre
comportarsi come richiesto dal luogo in cui ci si trova.
Rispetto al popolo d’Israele si legge: «Soltanto voi ho
conosciuto tra tutte le stirpi della terra; perciò vi farò scontare
tutte le vostre colpe» (Am 3,2). Dal canto suo, rivolgendosi alla comunità di Corinto Paolo rievoca alcune infedeltà compiute
dal popolo ebraico nel suo soggiorno nel deserto. Lo fa per parlare non
del passato, ma del presente: «Non mettiamo alla prova il Signore, come
lo misero alcuni di loro (...) Non mormorate come mormorano alcuni di
loro (...) Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere»
(1Cor 10,9-12). L’accento batte su chi è dentro e non già su coloro che sono restati fuori.
Nella Prima lettera di Pietro si legge che il giudizio inizia a partire
dalla «casa di Dio» (1Pt 4,17). Nella Seconda lettera di Pietro il
linguaggio diventa ancora più aspro: se, dopo essere fuggiti alle
corruzioni del mondo, si resta di nuovo invischiati e vinti da esse (si
pensi, nel senso alto e grave del termine, alle mondanità che albergano
nella Chiesa) la condizione diviene peggiore di quella di quando
s’ignorava «la via della giustizia» (2Pt 2,20-22).
La parabola evangelica ricorre a un linguaggio d’inusitata
durezza per indicare la sorte di coloro che hanno respinto l’invito (cf.
Mt 22,6), tuttavia la sua conclusione è incentrata su chi è privo della veste nuziale. In parole semplici riguarda «noi» non gli «altri».
Il Regno dei cieli è raffigurato con l’immagine del banchetto di nozze
del figlio. Se si vive la festa con gli abiti di tutti i giorni, si nega
coi fatti la novità del Regno. Ci si comporta come chi sta fuori e si
continua a essere presi dalle faccende legate alla vita di tutti i
giorni, curandosi del proprio campo e dei propri affari. La parabola ci
riguarda.
Per la misericordia di Dio, anche chi è privo dell’abito
nuziale può però sperare di non essere gettato fuori nelle tenebre dove
c’è pianto e stridore di denti (cf. Mt 22,13).
Il vangelo in poche parole