Il
brano delle tentazioni in Matteo arriva dopo il battesimo di Gesù,
dopo che Giovanni il Battista ha raccolto al Giordano la
miseria dell’umanità, e proprio lì, in quel fango, lo Spirito è
sceso su di lui e la voce del Padre ha detto che in questo Figlio si
è compiaciuto (cf Mt 3, 17).
Questo
Figlio è la mia gioia, la mia pienezza. Lui farà emergere il Padre,
lì in quel fango.
Mosso
dallo Spirito va nel deserto e arrivano le tentazioni. Dopo quaranta
giorni e quaranta notti di digiuno (Mt 4, 1-2) è logico che abbia
fame. È logico che quando uno avverte i bisogni della sua natura, le
necessità, le esigenze che urgono, quello è il momento opportuno
per la tentazione, per la seduzione. Lì appare il tentatore perché
proprio sulla condizione umana può far leva dopo la tragedia del
peccato. È importantissimo che prima ci sia il Battesimo, perché lì
Cristo partecipa pienamente della condizione umana, è immerso in
essa, la conosce.
Il
nemico si presenta come un amicone, uno che si mette dalla tua parte,
si inserisce esattamente in ciò che sarebbe la cosa più
connaturale, gioca a tuo favore.
Nel
deserto, in cui l’uomo con il peccato ha convertito il giardino, la
tentazione suggerisce di usare la figliolanza per fare di questo
deserto il cibo: “Fai diventare pane queste pietre”. Ma questo
significherebbe andare contro la verità: le pietre non possono
diventare pane; la pietra diventerà Cristo, ma non pane. È Cristo
l’epicentro, è il Logos di tutto il creato, nessuna cosa può
essere usata fuori dal Logos, perché la si perverte. Ma il diavolo
insinua che puoi vivere la verità di figlio di Dio da demonio, in
una maniera diabolica, usando Dio per soddisfare le esigenze della
natura, perché così rimaniamo quello che siamo: schiavi, anche se
soddisfatti. Questa è la vera tentazione: vivere la fede da non
credenti, vivere la figliolanza da schiavi, con qualche capriccio che
ci conferma.
E
questa è la linea di tutte e tre le tentazioni: che tu usi la
figliolanza per te stesso, e non da figlio, non in relazione. Il
diavolo ci ha vinti quando ci ha fatto vedere la possibilità di
vivere la fede come un’opera nostra, un impegno nostro, una nostra
conquista. E perciò prima facciamo le cose secondo la nostra
volontà, poi vogliamo che Dio ci salvi, che sia Lui a seguire noi.
Ci
siamo distratti per non vederci più nel Figlio, con il Padre. Questa
è la tentazione e la possiamo riconoscere in ogni istante: ognuno,
come diceva Gregorio di Nissa, è per l’altro un angelo, quello
buono o quello cattivo. Quando vediamo che la natura sta vincendo su
quelli che ci sono accanto, invece di aiutarli a fermarsi peggioriamo
la situazione, mettendo su di loro altri pesi, quasi in attesa di
veder passare il cadavere: queste sono le tentazioni.
Qui
sono rappresentate come un vero duello, colpo a colpo, ma le
tentazioni di Cristo non sono state un episodio; una volta questo
demonio si è presentato come Pietro che gli dice che non deve
soffrire (cf Mc 8,32); o come i giudei che dicono a lui di avere un
demonio (cf Gv 8,52). Un’altra volta come scribi e farisei:
“Maestro vorremmo vedere da te un segno” (Mt 12,38). E il diavolo
voleva un segno.
Cristo
è stato tentato fino alla croce, e così siamo tentati noi; almeno
cerchiamo di non distrarci troppo, cerchiamo di fissare lo sguardo su
Cristo e vederci dentro Cristo con il Padre. E perciò siamo chiamati
a una certa cura di chi ci sta accanto, a non distrarlo, ma aiutarlo
piuttosto a riportare lo sguardo al punto giusto, a non essere
schiavo della ferita della natura del peccato, ma essere Pietro che
cammina sulle acque, in forza della Parola che ci chiama.
Il vangelo in poche parole p. Marko Ivan Rupnik:
p. Ermes Ronchi:
p. Alberto Maggi:
p. Gaetano Piccolo:
sr. Mariangela Tassielli: