Siamo giunti alla fine dell’anno liturgico B, nel quale abbiamo
ascoltato nella liturgia domenicale il vangelo secondo Marco. Domenica
scorsa l’annuncio del Veniente, il Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26), ci
ha rallegrati, perché questa è la nostra speranza, la nostra attesa: che
il Signore Gesù venga nella gloria e venga presto.
Oggi, in verità, celebriamo un aspetto di questa venuta nella gloria,
attraverso il quarto vangelo, che con audacia profonda sa leggerla già
nella storia di Gesù di Nazaret, addirittura nella sua passione. In essa
avviene un’epifania: proprio quando Gesù è nel pretorio romano di
Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a
Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo
popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un Re paradossale, un “Re al contrario”,
perché non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si
fregia dell’applauso della gente, non appare in una scenografia
trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come
schiavo, quindi torturato, flagellato, financo incoronato di spine, si
rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che
nessuno può strappargli, la gloria di chi ama il mondo fino alla fine
(cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per gli uomini (cf. Gv 15,13),
rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): dunque, gloria dell’amore vissuto e
dell’amore mai contraddetto.
Ma cerchiamo di leggere con obbedienza il racconto di questa scena, o
meglio di questa “epifania”. La passione secondo Giovanni (cf. Gv
18,1-19,42), si compone di undici scene, ognuna situata in uno dei
diversi luoghi in cui Gesù è stato trascinato dai suoi persecutori. Al
centro sta la scena (la sesta) dell’incoronazione di spine, che nella
passione giovannea è il vertice della rivelazione dell’identità di Gesù
(cf. Gv 19,1-3). Gesù è stato flagellato come uno schiavo e i soldati si
accaniscono contro di lui. Per smentire la sua pretesa regale, gli
mettono sul capo una corona di spine, che lo trafiggono e lo sfigurano, e
lo rivestono di un manto di porpora come quello dei re della terra.
Questa intronizzazione prevede l’omaggio dei sudditi e i soldati dunque
si prostrano a lui e gli fanno doni mentre, dandogli schiaffi, così lo
salutano: “Salve, Re dei giudei!” (Gv 19,3). È una scena oggettivamente
di derisione, una parodia, ma nel vangelo secondo Giovanni è vera
epifania, perché in essa è rivelata la vera regalità di Gesù, servo del
Signore e vittima innocente del male del mondo.
La scena-epifania descritta nella pericope odierna è precedente (la
quarta), quando i capi dei giudei hanno ormai consegnato Gesù al
procuratore romano, perché lo condanni a morte come malfattore. Pilato,
che non vorrebbe interessarsi della sorte di questo giudeo, a causa
della pressione degli accusatori entra nel pretorio, fa chiamare Gesù e
lo interroga. Innanzitutto gli chiede ciò che più gli interessa: “Sei tu
il Re dei giudei?”. Ovvero: “Tu vanti un potere politico su questa
terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può essere un attentato al
potere imperiale romano, un’insidia per Cesare. Ma Gesù non gli risponde
subito, ponendogli invece a sua volta una domanda: “Tu, che non sei
ebreo, ma appartieni alle genti, ai gojim, mi fai questa
domanda mosso da una ricerca personale o semplicemente perché sei
istigato dai miei accusatori?”. Insomma, Pilato è manipolato dai capi
dei giudei o la sua domanda nasce da una mozione interiore?
Pilato, però, non comprende e mostra anzi il profondo disprezzo verso
i giudei e anche verso Gesù, un uomo legato, consegnato a lui, inerme e
per nulla bellicoso. Ripete solo a Gesù che sono proprio i suoi
connazionali, i capi religiosi dei giudei, ad averlo dato in balia del
suo potere di procuratore romano a Gerusalemme. Segue dunque la domanda:
“Che cosa hai fatto per poter essere da loro incolpato, quale delitto
contro la legge hai commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il
Regno, quello mio, non è di questo mondo”. Quello di Gesù non è un regno
che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla
guerra, non è un potere tra i poteri di questo mondo, in concorrenza
tra loro. Non è possibile nessuna concorrenza, tanto meno una
conciliazione tra il Regno che Gesù annuncia e i regni che sono sulla
terra. Il Regno di Gesù è altro: non è dominio ma servizio, è portatore
di vita non di morte, è pace, giustizia e non può essere neppure
compreso a partire dall’esperienza dei poteri di questo mondo.
Ma Pilato non riesce a reggere questa risposta di Gesù, non riesce a
sintonizzarsi sulle sue parole. Non può fare altro che dirgli: “Dunque
tu sei re?”, cioè pretendi – condannato come sei, in mio potere, ridotto
a “cosa”, consegnato a me dai capi dei giudei e da me consegnabile alla
morte – di essere re? Gesù allora replica: “Tu lo dici: io sono Re. Per
essere Re sono nato e sono venuto in questo mondo, con una missione che
mi chiede semplicemente di essere testimone della verità: testimone
della verità sull’uomo che è chiamato a essere figlio di Dio; testimone
della verità che deve essere ‘fatta’, realizzata da ogni uomo e da ogni
donna; testimone della verità di un Dio, mio Padre, che ha tanto amato
l’umanità da darle suo Figlio (cf. Gv 3,16)”. Stiamo attenti: la verità
non è una realtà astratta, non è neppure riducibile a una dottrina o a
un’etica, ma è innanzitutto una “vita”, la vita di Gesù, la vita di un
uomo conforme alla volontà di Dio, la vita di un uomo che dona se stesso
amando fino alla morte, dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in
sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo
ascoltano.
In questa risposta a Pilato, dunque in questa epifania, Gesù è Re più
che mai, Re dell’universo, Re di tutta l’umanità, perché è lui
l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata. Qui Gesù si
mostra Re più che mai, perché non ha nessuna paura, perché regna su
tutto ciò che lo attornia e su tutto ciò che accade; domina gli eventi,
resta libero e parla, agisce solo per amore: regna con la stessa
regalità con la quale regna Dio! Se c’è un’ora in cui il Regno di Dio è
venuto, è stato in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è
l’ora della passione e della croce. Comprendiamo allora perché
l’evangelista subito dopo annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e
ai capi dei giudei, proclama per due volte che Gesù è innocente, che non
c’è in lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. Gv 18,38; 19,4; e
ancora in 19,6); poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. Gv 19,1), lo
presenta a tutti con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Pilato però –
ci rivela sempre l’evangelista – durante quell’interrogatorio ha paura, e
quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di Dio, “ha
ancor più paura” (cf. Gv 19,7-8). I poteri di questo mondo possono non
avere paura l’uno dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte
a Gesù “hanno paura”, perché Gesù indifeso, inerme, mite, povero,
innocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto
l’universo.
Questo titolo di Re di Israele, di Re dei giudei, nel vangelo secondo
Giovanni è decisivo riguardo all’identità di Gesù. Fin dall’inizio del
vangelo risuona sulle labbra di Natanaele, nell’ora della sua vocazione e
del suo primo incontro con Gesù (cf. Gv 1,49): confessione di fede che
riconosce il Messia, discendente di David, Re-Figlio di Dio, colui che
adempie la promessa di Dio per il suo popolo e porta la liberazione, la
giustizia e la pace. Proprio nell’attesa del compimento di questa
promessa, la speranza messianica era viva al tempo di Gesù ma si era
caricata di attesa politica, di desiderio di sovranità mondana! Per
questo, quando le folle avevano visto il segno della moltiplicazione dei
pani, volevano prendere Gesù per farlo re (cf. Gv 6,14), ma non vi
riuscirono perché egli fuggì da loro ritirandosi nella solitudine della
montagna (cf. Gv 6,15). Ma anche quando Gesù entra in Gerusalemme per la
sua ultima Pasqua, la folla gli va incontro con rami di palma,
acclamandolo “Re d’Israele veniente, benedetto nel nome del Signore (Gv
12,13). Eppure anche quell’evento non viene capito nel suo significato,
nemmeno dai suoi discepoli (cf. Gv 12,16).
Solo ora, nella passione, la regalità di Gesù è svelata ed è
significativamente rifiutata da quelli che gridano la bestemmia: “Non
abbiamo altro re all’infuori di Cesare” (Gv 19,15), del potere mondano.
Tuttavia quando Gesù sarà in croce, il cartello voluto da Pilato nelle
tre lingue dell’ecumene – ebraico, greco e latino – proclamerà la
verità: “Gesù Nazoreo è il re dei giudei” (Gv 19,19). Sì, “ogni lingua
confessa che Gesù è Signore” (Fil 2,11), Kýrios, a partire dalla croce!
Ecco dunque il fondamento della celebrazione di questa festa di
Cristo Re, che è stata ricompresa dalla riforma liturgica del Vaticano
II, grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù
quale Re nella passione (il testo odierno nell’annata B e Lc 23,35-43
nell’annata C) e quale Giudice veniente nella misericordia (Mt 25,31-46
nell’annata A).
Il vangelo in poche parole