Celebrare la Pasqua con la lettura del passo terminale del Vangelo di Marco (cf. 16,1-7) privo della sua conclusione canonica (cf. 16,8-20) rappresenta una sfida. Non si tratta di filologia, nel cuore della notte più santa dell’anno è in gioco la fede.
Che sia una fede difficile lo prova il fatto che la tradizione
ecclesiale aggiunse altri versetti volti ad attenuare lo sconcerto. La
versione più antica, propostaci della liturgia, finisce infatti in modo
sospeso e inatteso. Né è privo di significato sottolineare che quella
proposta da Marco è, in assoluto, la prima versione narrativa di quanto
avvenuto nella mattina di Pasqua.
Non c’è alcuna descrizione evangelica della risurrezione.
È l’iconografia occidentale e non già il Vangelo a raffigurare Gesù che
esce vittorioso dal sepolcro. Nei testi c’è invece il racconto di
quanto le donne avevano intenzione di fare per onorare un morto e non
già per diventare testimoni di un vivente. In Marco le donne non incontrano il Risorto, s’imbattono solo in chi lo annuncia, al fine di affidare a loro il compito di dire ai discepoli e a Pietro di recarsi di nuovo in Galilea.
Nel corso della sua vita terrena Gesù non costituì come proprie
discepole delle donne, furono queste ultime a seguirlo e ad aiutarlo. A
nessuna tra loro fu affidato in modo esplicito il compito di annunciare
il Regno. La mattina di Pasqua tutto mutò: alle donne venute per ungere un cadavere è assegnata la missione di annunciare ai discepoli l’avvenuta risurrezione.
Il capovolgimento dalla morte alla vita trova una specie di
corrispondenza nell’affidare ad annunciatrici la buona novella più
grande tra tutte. Ormai nulla sarà più come prima.
I versetti di Marco continuano comunque a produrre sconcerto. Non lo
fanno a motivo dello spavento avvertito dalle donne. Di fronte alle
manifestazioni divine è tratto antico; anche Abramo, all’atto di
stabilire il patto tra le bestie divise, fu assalito da un grande
terrore (cf. Gen 15,10). Quanto è arduo da comprendere è perché le donne, incaricate di un compito tanto alto quanto aperto alla vita, lo disattendono:
«Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di
spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno perché erano
impaurite» (Mc 16,8). L’annuncio che avrebbe dovuto riempire di gioia il cuore dei discepoli è consegnato all’oscuro carcere del silenzio.
Vi è un aspetto salutare nel far memoria di quella reazione. «Risurrezione» è
una parola che abbiamo udita fin dall’infanzia. È giusto che sia così,
essa è infatti posta a fondamento della nostra fede. Eppure, quando
nella profondità della nostra coscienza pensiamo al risorgere, ci
risulta impossibile definirlo. Conosciamo che significa vivere da
mortali, mentre ignoriamo cosa comporta essere risorti.
A volte ci è dato sperimentare preziose rinascite, scoprire che quanto
sembrava morto ritorna in vita. Sono realtà preziose. Ciò però non
equivale a sapere cosa vuol dire essere immersi in una vita giunta alla
sua intramontabile pienezza dopo essere passata attraverso la morte. Si
tratta di una realtà inaudita, connessa a uno stupore ricco di santo timore.
La drammatica chiusa del Vangelo di Marco ci comunica che l’orizzonte della risurrezione, senza il quale la nostra fede è vuota (1Cor 15,14), non è racchiudibile nel cerchio della nostra esistenza destinata
a finire. Il confronto con esso ci scuote perciò fin dalle fondamenta.
La paura delle donne ha in se stessa un grado di verità maggiore dei
consueti e tranquilli auguri di «buona Pasqua» che ci scambiamo in
questi giorni.
Il vangelo in poche parole