“Signore, quando ti abbiamo visto?” (Mt 25,37.38.39)
È la domanda che più ritorna nel
Vangelo di oggi, che parla di un momento finale della storia, quando il
Signore ritornerà e ci sarà il grande giudizio sulla vita di ognuno. E
accadrà che il Signore rivelerà a ciascuno il proprio operato, un
operato che, secondo la parabola, nessuno conosce, né chi ha operato il
bene, né chi l’ha omesso.
Ma lo stupore più grande sarà nel
rendersi conto che quel gesto concreto, fatto a quella persona concreta,
è stato fatto a Cristo (Mt 25,40): Lui si identifica interamente con il
povero, bisognoso di cura.
Di questa Parola, vorrei solo sottolineare una stranezza.
Nella parabola ci viene detto che
chiunque si fa prossimo ad un uomo nella sua sofferenza, e non lo fa per
nessun altro motivo se non quello di una comune umanità, lo fa, senza
saperlo, al Signore stesso, che è presente nel fratello sofferente.
La parabola ci dice cioè quello che, in
fondo, per la logica stessa della parabola, noi non dovremmo sapere,
cioè che ogni gesto d’amore fatto a chiunque è fatto in realtà a Cristo.
A prima vista sembra strano, perché
dovremmo amare il prossimo per se stesso, perché in questa gratuità
accade il Regno dei cieli; dovremmo amare il prossimo, senza sapere che
così amiamo Cristo; invece è proprio ciò che la parabola ci dice.
Ecco, forse qui sta un nodo cruciale della nostra fede.
Che sta tutta in questa costante
novità, in questa rivelazione che si rinnova ogni volta: proprio lì, in
quel frammento di storia dolorante, dove ci sembra che il Signore sia
assente, che abbia abbandonato il campo, Lui si rivela in tutta la
pienezza della sua misericordia.
La fede è questo stupore, di occhi che
si aprono a riconoscere il Signore esattamente lì, in quella persona, in
quell’evento, dove noi non avremmo mai pensato di poterlo incontrare.
Per questo, il giudizio di cui parla la parabola non è qualcosa che accade soltanto o innanzitutto alla fine dei tempi.
È il giudizio che pone un criterio di
discernimento per la vita di ogni giorno e di ogni cristiano, chiamato
ad amare non per avere una ricompensa, non per assolvere ad un obbligo
religioso, ma per un traboccare del dono che ha ricevuto per primo. E
che poi, dentro questo suo gesto così profondamente umano, riconosce la
presenza di un Altro, e lì incontra il Signore, lì lo “vede” (Cfr. Mt
25,37).
Come Francesco d’Assisi, che abbraccia e
bacia il lebbroso, che gli “usa misericordia” non spinto da alcuna
motivazione religiosa; e che, dopo averlo fatto, riconosce quanto il
Signore sia stato presente in quell’evento che gli ha cambiato la vita.
I sinottici riportano, con qualche
sfumatura diversa, le parole di Gesù secondo il quale il Regno di Dio
non viene in modo da attirare l’attenzione. E se qualcuno dice “eccolo
qui”, o “eccolo là”, non è il caso di dargli credito (cfr. Lc 17,22 ss e
paralleli).
Visto quanto dice la parabola di oggi, non può essere se non così.
Il Regno di Dio non è riconoscibile con gli occhi della carne, con i criteri del mondo.
Se così fosse, lo si cercherebbe nei grandi eventi della storia, nei grandi personaggi, nei luoghi importanti.
Il Regno di Dio c’è, ma va cercato, e
lo si trova nei bassifondi della vita, negli ultimi della storia,
proprio quelli che Gesù, all’inizio della sua predicazione, aveva
dichiarato “beati” (Mt 5, 1-12).
E la vita sta tutta in questa sempre nuova scoperta.
Il vangelo in poche parole