“Cosa è il coraggio? Mi sembra che sia semplicemente l’amore in
movimento, l’amore in azione. Che non si ferma di fronte agli ostacoli,
alle sfide, alla paura. Penso che lo specifico delle religiose in questo
contesto mediorientale ma credo in tutti i contesti sia la creatività
dell’amore, ovvero l’essere capaci di mettere l’amore in movimento, con
tanta creatività, con espressioni anche ministeriali e di servizio
diverse. Penso che in questo forse noi religiose siamo un po’specialiste
ed è bello che ciò venga riconosciuto e messo in luce.” A dirmi questo
è suor Alicia Vacas, comboniana, di origine spagnola, insignita lo scorso otto marzo, con altre quattordici donne, del premio “Donna coraggio”,
assegnato da Antony Blinken, Segretario di Stato americano. Con lei
donne della Birmania e del Camerun, della Bielorussia e del Congo, del
Nepal e dell’Iran e di altri Paesi del mondo. Donne che hanno dimostrato
eccezionale coraggio e leadership nel sostenere la pace, la giustizia, i
diritti umani, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile,
spesso a grande rischio personale e sacrificio.
Una casa accerchiata dal Muro
“Sognavo di andare in Africa ma la vita mi ha portato in Medioriente:
prima a Dubai, poi in Egitto, Israele e Palestina”. Ora suor Alicia, 48
anni, un diploma di infermiera alle spalle, è superiora provinciale
delle Suore Missionarie Comboniane per il Medio Oriente. Ci conosciamo
da molti anni e l’ho incontrata varie volte a Betania, il villaggio di
Marta e di Maria e della resurrezione di Lazzaro (non a caso, ancora
oggi, gli arabi lo chiamano al-Azariyeh, luogo di Lazzaro) dove le
Comboniane hanno la loro casa. Che ha una particolarità. Dopo la
costruzione del Muro di Separazione che separa Israele dai territori
palestinesi, la casa è stata accerchiata da tre lati.
“Si, accanto alla casa, nel nostro giardino, è sorto il muro, alto otto
metri e profondo quattro. Un muro che ci ha diviso dalla piccola
comunità cristiana che si ritrova attorno alla chiesa e ci ha separati
dalle famiglie dei bambini che frequentano la nostra Scuola materna. La
casa e la comunità, fino al 1967 territorio giordano, sono finite nella
parte israeliana, loro nella parte palestinese. In linea d’aria sono
meno di duecento metri. In pratica, se volessimo recarci a trovare le
famiglie dobbiamo percorrere con l’automobile diciotto chilometri. Un
tragitto non facile, costellato da checkpoint e che può durare ore”.
Un giardino dove i soldati rincorrono i giovani
Quando passo a trovarla, suor Alicia mi accompagna sul grande
terrazzo della casa e mi mostra, appena al di là del muro, un
appartamento dove ora vive una parte della comunità comboniana che si è
trasferita lì per continuare ad essere vicina e condividere la vita con
la gente di Betania. Le suore si salutano e si mandano parole e messaggi
dai balconi. “Il muro ha sconvolto la nostra vita. I ragazzi hanno
imparato a scavalcarlo per andare a Gerusalemme, a lavorare o in
moschea. A noi suore capita spesso di vedere nel giardino soldati che
inseguono i giovani. A volte, vi sono scontri con le pietre, altre con i
gas lacrimogeni o le molotov che hanno bruciato il campo sintetico del
nostro asilo. E’ la storia di questo pezzettino di muro, ma il muro è
lungo più di 800 chilometri e ogni pezzettino ha la sua storia”
Si vive in una bolla, senza l’altro
La ragione primaria per la quale venne costruito il muro era quella
di bloccare gli attentatori suicidi che terrorizzavano con i loro
attacchi la popolazione civile di Gerusalemme. Suor Alicia concorda che
da allora si sono ridotti drasticamente i kamikaze ma sono sorti altri
problemi. “C’è una generazione di ragazzi che è cresciuta e che non ha
visto e incontrato nessuno dall’altro lato del muro. Ciascuno resta
nella sua bolla e il risentimento, l’odio, è molto più immaginativo ed è
pericoloso perché dà l’occasione di gettare addosso all’altro tutta la
paura e la rabbia. Il muro rischia di portare una pace finta ma non sta
offrendo una prospettiva di pace per il futuro”.
Come stare da cristiani nel conflitto?
Quando vedo quel muro in mezzo al giardino di Betania mi pongo ogni
volta la domanda su come si possa stare da cristiani nel conflitto
israelo-palestinese. “Intercessione – mi dice convinta suor Alicia –
vuol dire stare in mezzo. E’ una posizione scomoda, che a volte ti
strazia. Eppure è quello che ci è chiesto per stare da cristiani dentro
questo conflitto. Non possiamo farci prendere dalla rabbia o dalla
disperazione. Come comboniane faremmo un pessimo servizio alla Terra
Santa se impugnassimo una bandiera contro un’altra. Non perché non
vediamo ciò che ci appare ingiusto o non sappiamo che posizione prendere
ma il nostro compito è quello di lavorare per riconciliare. Vogliamo
creare momenti e possibilità per sconfiggere questo muro, per aprire
brecce. Per questo abbiamo sempre voluto lavorare con il popolo
palestinese ma anche con organizzazioni e amici e volontari israeliani.
E’ fondamentale che si creino occasioni perché in questo modo si
incontra il volto dell’uomo. Il governo fa di tutto perché questo non
avvenga. Ma da una parte e dall’altra sono in tanti a volerlo.”
Ebrei che vogliono la pace
Dunque, da una parte un governo che costruisce il muro, dall’altra
una miriade di organizzazioni ebree che si impegnano a servizio di chi
fa più fatica: Rabbini per la pace, Donne in nero, Medici per i diritti
umani, Machsom Watch, Combattenti per la pace, Parent’s Circle.
“All’inizio pensavo di essere fortunata quando ne incrociavo qualcuno.
Poi invece ne ho incontrati tantissimi: artisti, maestri, intellettuali,
infermieri, medici. A volte, alcuni di loro si giocano lo status o le
relazioni sociali con gli amici e l’ambiente attorno. Eppure non
mollano.”
Stare in piedi davanti alla croce. Che non è l’ultima parola.
Dentro i drammi che incontri ogni giorno, dai beduini ai rifugiati
del Sinai che arrivano in Israele portando sul corpo i segni della
tortura, come custodire la speranza e fare in modo che non resti solo
una parola retorica? “Mi sento molto fortunata perché la nostra fede ci fa stare in piedi davanti alla Croce. E’
una forza sconvolgente. La capacità cioè di stare in piedi davanti alle
ingiustizie, alla sofferenza, alla morte perché c’è la convinzione
molto profonda che la vita è più forte. Ed è davvero più forte. Nel 2014
quando c’è stata la guerra a Gaza ci siamo recati con i Medici per i
diritti umani. Mentre stavano bombardando, tante persone, anche
israeliane, ci chiedevano: dov’è Dio a Gaza? Io ho
scoperto che era nelle rovine, anche nelle mie rovine, nelle mie
debolezze. Certo, la domanda “Che Dio è quello che permette queste
guerre?” va presa sul serio. Ma dicevo loro: dalla mia prospettiva in
questo momento Dio è in croce a Gaza. E se Dio è lì io voglio essere
dove è Lui. Questo dà molta forza anche adesso. L’anno scorso, come in
questi giorni, ero a Bergamo presso l’infermiera della nostra Casa e
ricordo di aver passato tutto il giovedì santo, compresa la notte,
accanto ad una sorella che stava morendo. Mentre ero lì, ho capito di
nuovo che il nostro Dio non è un crocefisso morto ma un Dio che è presente anche nel tragico della storia. E’
un Dio che trasforma e dà la vita. E la vita è più forte, la morte non è
l’ultima e definitiva parola. Anche se tutto pare dire il contrario. E’
il senso della Pasqua che abbiamo celebrato e che celebriamo ogni
giorno quando scopriamo dentro e accanto a noi feritoie di luce e di
speranza. Nonostante tutto”.