In questa solenne occasione
rendo grazie al Signore per la luce della fede accesa nella vostra
terra, fede che ha conferito all’Armenia la sua peculiare identità e
l’ha resa messaggera di Cristo tra le Nazioni. Cristo è la vostra
gloria, la vostra luce, il sole che vi ha illuminato e vi ha donato una
nuova vita, che vi ha accompagnato e sostenuto, specialmente nei momenti
di maggiore prova. Mi inchino di fronte alla misericordia del Signore,
che ha voluto che l’Armenia diventasse la prima Nazione, fin dall’anno
301, ad accogliere il Cristianesimo quale sua religione, in un tempo nel
quale nell’impero romano ancora infuriavano le persecuzioni. La fede in
Cristo non è stata per l’Armenia quasi come un abito che si può
indossare o togliere a seconda delle circostanze o delle convenienze, ma
una realtà costitutiva della sua stessa identità, un dono di enorme
portata da accogliere con gioia e da custodire con impegno e fortezza, a
costo della stessa vita.
Discorso di saluto di papa Francesco durante il viaggio in Armenia, 24 giugno 2016
Un popolo martire
Probabilmente non c’è popolo al mondo (non ce ne vogliano gli ebrei)
che ha avuto storia più tormentata degli armeni. Una storia segnata sin
dagli inizi. Trasferendosi dalle steppe russe e dalle pianure del basso
Danubio, tra il nono e il settimo secolo avanti Cristo e attraversando
il Bosforo per raggiungere la Frigia, gli armeni finirono per stabilirsi
esattamente nel crocevia di ogni futura conquista e scorreria.
Non ci fu invasione dall’ Asia verso l’ Europa e dall’ Europa verso
l’ Asia che non coinvolse la loro roccaforte montuosa, ambita da tutti
per la posizione dominante verso le grandi vie del Tigri e dell’
Eufrate.
Eppure la storia degli armeni non si può capire se non partendo dalla
loro fede. La tradizione attribuisce il primo annuncio cristiano in
terra armena agli apostoli Bartolomeo e Taddeo.
La conversione dell’intero popolo – primo al mondo – al cristianesimo
avviene nel 303. Le vicende di questo popolo sono una testimonianza
straordinaria di fedeltà al messaggio evangelico, pagata duramente,
anche a costo della vita stessa. Gli armeni resistettero con coraggio
all’invasione arabo-musulmana.
Crearono tra IX e XI secolo un fiorente regno cristiano, entrarono in
complesse relazioni con Bisanzio e con i crociati, fondarono fra le
montagne del Tauro e il golfo di Alessandretta, vale a dire nella
regione chiamata Cilicia, un regno della cosiddetta “piccola Armenia”
che si mantenne, con alterne vicende, fino al Seicento. Fu allora che
gran parte dell’ Armenia entrò a far parte dell’ Impero Ottomano.
Armena era Edessa (oggi Urfa in Turchia), la città del “mandylion”
della Veronica, armena è la grande montagna dell’Ararat (5156 metri)
dove la leggenda e alcuni archeologi contemporanei pongono i resti
dell’Arca di Noè, armeni erano i molti mercanti che, fieri della loro
appartenenza alla fede cristiana, commerciavano nel mondo allora
conosciuto.
Il primo genocidio del Novecento
I problemi nacquero soprattutto per gli armeni finiti sotto il
dominio turco. Nonostante la precedente convivenza, durante la prima
guerra mondiale (1914-1918) l’Impero Turco decise, con un proclama non
ufficiale, di eliminare tutti gli armeni dentro i confini dello stato.
Fu il primo genocidio del novecento. Forse il più brutale e crudele.
Certamente il più dimenticato e rimosso dalla comunità internazionale.
Ancora oggi, solamente l’Assemblea Nazionale della Francia lo ha
riconosciuto: il resto del mondo, Italia compresa, per opportunismo, se
ne guarda bene dal farlo.
Il sogno dei “Giovani turchi”, che salirono al potere nel 1908, era
quello di dar vita ad un grande impero che comprendesse tutte le
popolazioni turche, dal Mar Egeo ai confini della Cina. Gli armeni –
ancora una volta! – costituivano un’isola non turca in mezzo al grande
mare delle popolazioni turche. Per questo fu deciso di sterminarli.
I “Giovani turchi” erano convinti che le potenze europee, impegnate
nella guerra, non potevano interferire nelle faccende interne della
Turchia. Cominciarono, all’inizio, con gli intellettuali, i monaci e
sacerdoti, i dirigenti politici. Nelle città e nei villaggi abitati da
armeni rimasero quindi solo donne, vecchi e bambini. Per loro venne
decretata la deportazione.
Adducendo come pretesto la prossimità della zona di guerra, vennero
costretti ad abbandonare le loro abitazioni per trasferirsi, così fu
detto, in zone più sicure. Per strada le carovane dei deportati venivano
sistematicamente assalite da bande di criminali, fatti uscire
appositamente dal carcere per costituire la cosiddetta “Organizzazione
Speciale” il cui compito era lo sterminio degli armeni.
I mezzi usati per compiere questo sterminio furono di un’inaudita
ferocia e di un sadico accanimento contro le vittime. Chi riusciva a
sfuggire al massacro periva per la fame, la sete, le malattie e gli
stenti del lungo viaggio compiuto a piedi per centinaia di chilometri.
Perirono così circa 1.500.000 di persone: la gran parte degli armeni di
Turchia.
Molte chiese armene, autentici gioielli dell’architettura medievale,
durante il genocidio, e negli anni successivi, furono intenzionalmente
distrutte o lasciate in balia dei vandali e dei ladri oppure trasformate
in stalle, magazzini, fattorie. Nel migliore dei casi divennero delle
caserme o delle moschee.
La Turchia dapprima ha sempre evitato di parlare dello sterminio; ora
si ostina a negare ostinatamente il “genocidio” del popolo armeno (che
viene ricordato ogni anno il 24 aprile).
Questo ‘immane e folle sterminio’ – ha ricordato papa
Francesco durante il suo viaggio in Armenia dello scorso anno – questo
tragico mistero di iniquità che il vostro popolo ha provato nella sua
carne, rimane impresso nella memoria e brucia nel cuore. Voglio ribadire
che le vostre sofferenze ci appartengono. Ricordarle non è solo
opportuno, è doveroso affinché siano un monito in ogni tempo perché il
mondo non ricada mai più nella spirale di simili orrori!.
Oggi gli Armeni nel mondo sono otto milioni e mezzo: cinque milioni
vivono nella “diaspora”, tre milioni e mezzo nell’attuale Armenia, stato
nato nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La capitale è
Erevan mentre il territorio – 30.000 kmq – è un decimo di quello
originario.
San Lazzaro, un’Armenia in miniatura
La pressione musulmana aveva obbligato una parte della Chiesa armena,
alla fine del XII secolo e poi di nuovo durante il XV, ad aderire alla
Chiesa romana: oggi esistono due Katolicos, uno maggioritario –
monofisita – e uno che riconosce il primato di Roma, alla pari di una
terza e più piccola, con sede in Libano.
Nella stessa Armenia, nel 1700 iniziò a venire perseguitata la
minoranza cattolica (300.000 persone), tanto che il monaco Manouk de
Pierre, detto il Mechitar (il Consolatore) che in terra natale aveva
fondato una serie di monasteri, dovette fuggire. Prima andò in Grecia
fino a raggiungere poi nel 1715 Venezia dove riuscì a farsi destinare
dalla Repubblica un’isola in precedenza adibita a lebbrosario e poi
caduta in abbandono da già due secoli: l’isola di S. Lazzaro. Grazie a
Mechitar e all’azione del suo ordine, la cultura armena conobbe una
straordinaria rifioritura.
I Mechitaristi rifiutarono i tentativi di latinizzazione della
liturgia armena e intrapresero un opera colossale: tradurre in armeno i
capolavori della cultura mondiale (studi religiosi, linguistici e
storici, teatro, letteratura). Per questo, l’isola di san Lazzaro è
considerata “un’Armenia in miniatura”: non solo dai tantissimi turisti
che vi approdano quasi per caso ma anche dagli armeni sparsi in tutto il
mondo.
Oggi si raggiunge l’isola di san Lazzaro con il vaporetto numero 20
che parte dalla Riva degli Schiavoni, poco lontano dalla chiassosa e
troppo affollata Piazza San Marco. Sono venti minuti di battello che
introducono in un mondo “altro”, segnato dalla bellezza delle linee
architettoniche del complesso monastico e dal silenzio che avvolge
l’isola. Un silenzio che avvolge anche il visitatore più distratto, che
rende questo luogo affascinante come pochi.
Con la cultura a servizio dell’Evangelo
Ad accogliermi sull’isola è un monaco dallo sguardo sornione. A prima
vista, non appare molto contento di vedermi (anche qui non si fidano
troppo dei giornalisti…) ma gli basta poco per appassionarsi alla
discussione e iniziare un racconto che, con fatica, riesco, ogni tanto,
ad interrompere.
E’ uno degli otto monaci mechitaristi che attualmente vivono
sull’isola. Curano la preghiera (sette volte al giorno, come tutti i
monaci), la liturgia, lo splendido museo che raccoglie quanto gli armeni
di tutto il mondo da più di due secoli hanno qui portato. Scopo dei
mechitaristi, oggi come ieri, è servire la nazione armena facendone
conoscere la cultura e promuovendo l’unione con la chiesa di Roma;
preghiera, studio e apostolato (scuole e parrocchie) sono i mezzi
utilizzati per realizzare questo fine.
Padre, definire un armeno non è semplice… Mi dia una mano.
Siamo un popolo indoeuropeo con una lingua propria e un fortissimo
legame culturale. Certo, essere stati cinquecento anni sotto la
dominazione turca è stata una prova durissima ma ha permesso di
dimostrare anche la forza culturale del nostro popolo. Parte integrante
della nostra identità è la fede cristiana: essere cristiano è essere
armeno. Il nostro fondatore raccontava che un giorno, quando era
giovane, gli capitò di incontrare un gesuita e, a questi, padre Mechitar
chiese se credeva nella Santissima Trinità e se aveva devozione per la
Santissima Vergine Maria… Insomma, essere armeno equivale a dire essere
cristiano ed essere cristiano significa essere armeno. Chi rinnega la
fede cristiana rinnega la sua vita, rinnega la sua armenità. Noi che
pure sosteniamo l’unione della Chiesa armena con la chiesa di Roma, ci
sentiamo armeni al cento per cento. A scanso di equivoci, non siamo gli
armeni “cattolici” che spesso, nei secoli precedenti, si sono creati
un’identità a parte, molto “romana” e poco armena. Noi li chiamiamo
“Franc”, franchi, latini…
Su cosa si fonda la spiritualità armena?
E’ basata essenzialmente sui padri della chiesa…
Vuol dire che è impiantata sulla struttura monastica?
Sì, il monachesimo è quello medio-orientale, basato in gran parte su
san Basilio ma anche su sant’Antonio, la cui tradizione eremitica era
molto radicata in Armenia. Tenga conto che la vita monastica in Armenia
era molto fiorente e molto diffusa: in ogni angolo c’era un monastero.
Come per il resto d’Europa, il monachesimo rappresentò uno straordinario
movimento di cultura, di arte, di spiritualità e di animazione
liturgica. Fu un monaco, Mesrop Mashtots, che, nel 405, inventò
l’alfabto armeno. La vita monastica si concentrava su preghiera, lavoro
quotidiano, studio delle sacre Scritture e dei commenti dei Padri della
Chiesa. I monaci vivevano una vita di povertà, obbedienza e castità
senza però fare voti espliciti. Fu Mechitar a voler conservare la forma
del monachesimo armeno “non senza i tre voti che sono essenziali allo
stato religioso”.
L’altro caposaldo della spiritualità armena è la liturgia…
E’ vero. La liturgia è l’espressione del popolo armeno ed esprime lo
spirito dei padri della chiesa armena. E’ una liturgia molto antica che
si caratterizza con una grande apertura alle varie tradizioni cristiane
di altri popoli tra i quali gli Armeni si sono trovati a vivere: quella
sira, quella greca e quella latina.
Molte parti sono state accolte dentro la propria liturgia, mantenendo
invariato il nucleo originale ed il tono proprio dell’identità armena.
La liturgia è sempre molto solenne, e viene celebrata nell’antica lingua
ecclesiastica nella chiesa che, a differenza delle chiese orientali,
non ha l’iconostasi; al suo posto c’e’ una grande tenda che viene chiusa
in alcuni momenti della celebrazione. Luci, colori, profumi, tutto
avvolge la persona chiamata alla preghiera.
In particolare i canti sono famosi per la loro bellezza, venati come
sono da una melanconia tipica degli Armeni. Furono raccolti e ordinati
nell’undicesimo secolo in un libro chiamato Sarakan, che vuol dire
“raccolta di gemme”. Sono inni e composizioni che mettono al centro la
vita e i misteri di Cristo, della Vergine, degli apostoli e dei martiri.
Per noi la liturgia è stare alla presenza del sacro: per questo i
ministri non calpestano lo spazio intorno all’altare con le scarpe
normali, ma con speciali pantofole; per questo, il libro del Vangelo
viene sempre tenuto in mano con un velo prezioso.
La liturgia è l’incontro con la santità di Dio, un incontro che
genera sempre una missione e un compito nel mondo. Come ha detto
Giovanni Paolo II quando ha incontrato i monaci della nostra
Congregazione
con la vicenda di Mechitar di Sebaste la storia della
spiritualità monastica armena tocca un suo vertice. In un periodo di
forte decadenza, dovuto anche a precise circostanze socio-politiche,
Mechitar comprese che nella santità stava il mezzo più alto ed efficace
per ridare dignità, vigore e impegno morale e civile al suo popolo. Egli
fu anzitutto un cercatore di Dio, come ogni monaco è chiamato ad
essere. Volle esserlo nel contesto preciso della vita monastica armena,
riconoscendo in essa un inesauribile serbatoio di santità e insieme un
singolare ambito di approfondimento culturale dei valori della
tradizione, grazie alle celebri accademie e all’istituzione del
“vardapet”, il monaco-dottore, incaricato di diffondere, mediante la
predicazione e il discepolato, la dottrina cristiana.
Anche noi, qui sull’isola, vorremmo camminare su questa strada:
essere cercatori di Dio capaci di raccontarlo con la nostra vita e la
nostra sapienza.