Oratorio

Un pilastro portante di ogni comunità cristiana è l’oratorio. Seguendo gli esempi di san Filippo Neri e di san Giovanni Bosco, gli oratori sono nati come occasioni educative per i ragazzi e i giovani, ad opera di adulti motivati e preparati, che vogliano bene ai ragazzi e collaborino con gli altri adulti (i genitori in primis) per la loro crescita umana e cristiana. Le attività oratoriane possono svolgersi in qualsiasi spazio o ambiente. L’”oratorio” infatti, prima ancora che un insieme di spazi e strutture, è innanzitutto uno stile, una cura, un’attenzione della Comunità tutta verso i più giovani.

Nella nostra Valle le diverse iniziative si svolgono a rotazione nei diversi spazi disponibili. L’attività più conosciuta, oltre alla catechesi e alle feste ad essa collegate, è l’avventura estiva del GREST, che coinvolge attivamente famiglie, educatori e diversi animatori.

Ma anche durante l’anno diverse sono le occasioni per “educare divertendo” e “divertire educando”: in alcuni paesi un gruppo di volontari adulti garantisce l’apertura settimanale dell’oratorio, proponendo attività ludiche e ricreative molto varie; in altri ci sono proposte di animazione liturgica e di canto adatte alla fascia dei ragazzi; ci sono poi proposte occasionali legate a tornei, teatri, compleanni, feste del paese, ecc.

Suggerimenti e materiali per l’animazione cristiana degli oratori sono a disposizione anche sul sito diocesano di pastorale giovanile: www.pgcomo.org.

Avvisi

"Capisci ciò che leggi?" - Lettura continua del Vangelo di Marco: Mc 13,1-4

Mc 13,1 Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: "Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!". 2Gesù gli rispose: "Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta".
3Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: 4"Di' a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?".

Per un conoscitore della Bibbia, è assai difficile leggere questi pochi versetti senza ricorrere col pensiero ai capitoli 8–11 del profeta Ezechiele. Molte Bibbie li intitolano così: ‘La gloria di Iahvè abbandona il tempio’.. Si trattava del grandioso tempio del re Salomone, considerato dai fedeli la casa di Dio sulla terra. Il profeta lo contempla e vede la gloria di Dio (un’immagine per dire Dio) che si alza e abbandona la sua casa. Dopo un breve tragitto, si sofferma un po’ sulla porta orientale del tempio per poi abbandonare definitivamente la città e fermarsi sul monte degli Ulivi. La città, senza Dio, è così destinata alla rovina e alla morte. Ciò avvenne l’anno 587 a.C.

Qualcosa di simile si ripete con l’uscita di Gesù dal tempio. E Marco ci ha preparati a questi avvenimenti. Egli ha presentato Gesù che accusa Israele di essere come una pianta che non dà frutto, e di avere impedito che il tempio fosse una casa di preghiera per tutte le genti; e ha pure presentato Gesù come pietra fondamentale di un nuovo edificio, di un nuovo popolo: la Chiesa. Ora, dopo lunghe controversie, Marco ritorna al tema della condanna di Israele, e presenta Gesù che abbandona il tempio e ne predice la rovina: «Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta» (v. 2).

Non hanno voluto accogliere Gesù come il Messia, come colui che instaura il Regno di Dio e ne realizza la presenza sulla terra. Ebbene, lui li abbandona. E dove non c’è lui ci può essere solo fallimento e rovina.

I discepoli vogliono indagare e lo interrogano in disparte: «Dicci, quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?». La domanda è limitata alla distruzione del tempio, ma la risposta di Gesù andrà oltre questo evento, per prospettarne un altro molto più importante. Quello che conta per il discepolo non è la data o i segni della distruzione di Gerusalemme. Ciò che conta è il modo di vivere l’attesa del Signore.

L’uomo è l’unico animale che sa di dover morire. Cosciente della propria morte, cerca di sapere quando sarà; ne spia i segni nell’illusione di controllarla. Ma, proprio così, invece di scansarla o allontanarla, si fa sua preda anticipata. Cade sotto il suo dominio dispotico, soggiogato dalla paura.

Il vangelo non soddisfa il nostro prurito di curiosare circa il futuro. Non vuole alimentare la nostra ansia, ma vincerla con la fiducia. Con la croce è già venuta la fine del mondo vecchio e il principio di quello nuovo. Ciò che è avvenuto nel Signore è quanto avviene e avverrà a ciascuno di noi e a tutta la storia.

Il cap. 13 non intende far previsioni catastrofiche e ineluttabili. Alla luce della storia di Gesù, vuol farci leggere il nostro presente per viverlo con responsabilità e determinare così il nostro futuro, che dipende appunto da ciò che facciamo ora. Ciò che conta è il presente, come luogo della fedeltà al Signore.

Questo discorso, più che dirci le ultime cose che avverranno, ci svela il senso ultimo delle cose che avvengono. Gran parte di esso parla di guerre, carestie e terremoti. Non sono che gli ingredienti della nostra storia, quella di tutti i tempi, posta sotto il segno del peccato. È nella nostra storia attuale che noi viviamo la nostra pasqua di morte e risurrezione. I rantoli del vecchio mondo che agonizza sono anche le doglie del parto del mondo nuovo che nasce. Le parole che qui Gesù dice si sono avverate nella sua epoca e si avvereranno in ogni epoca. Per questo l’evangelista dice: «Chi legge, capisca!» (v. 14). Infatti, la storia di Gesù rivela il mistero dell’uomo e del cosmo: in lui è il destino di tutto e di tutti.

Il discepolo sa che c’è una fine: la morte. Ma sa anche che c’è un fine: la risurrezione. Questo illumina tutto del suo vero senso, e gli infonde una fiducia costruttiva. A differenza di chi segue delle ideologie, egli non si illude e non si delude. Gli altri sono ottimisti o pessimisti; lui è realista perché ha speranza.

27/04/2019 Categoria: Torna all'elenco