"Capisci ciò che leggi?" - Lettura continua del Vangelo di Marco: Mc 14,17-21
Mc 14,17 Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici.
18
Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: "In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà".
19
Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l'altro: "Sono forse io?".
20
Egli disse loro: "Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto.
21
Il Figlio
dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo, dal
quale il Figlio dell'uomo viene tradito! Meglio per quell'uomo se non
fosse mai nato!".
Una
lettura superficiale del vangelo ci potrebbe far deviare dal vero
significato delle parole e dei fatti. I veri protagonisti della
passione, cioè quelli che agiscono per la salvezza, sono due: il
Padre e Gesù che si mantiene unito a lui. È vero che qui viene
ricordato il tradimento di uno dei Dodici, ma le parole che usa Marco
per raccontare ai suoi l’accaduto hanno un colore decisamente
anticotestamentario. La frase «colui che mangia con me» è tolta
dal Sal 41,10, mentre il passivo «è tradito» (paradidotai)
richiama Isaia 53,6.10.12. Infine, l’espressione «come sta scritto
di lui» ricorda tutto ciò che di Cristo hanno detto i profeti. Da
qui nasce un importante principio di lettura: se l’evangelista
narra l’accaduto servendosi dell’Antico Testamento, ciò
significa che noi dobbiamo leggerlo come una storia di salvezza. Ora,
questa storia è guidata da Dio e non dagli uomini ed è per questo
che Marco fa assumere a Giuda un ruolo strumentale, per mezzo del
quale il Figlio dell’uomo viene consegnato (dal Padre). Il peccato
di Giuda non è vangelo (buona notizia): guai a quell’uomo! Dio non
accetta il suo agire, non lo fa suo collaboratore. Dio però vuole la
nostra salvezza nel Figlio suo Gesù e perciò, malgrado gli uomini,
rende colui che è stato rigettato salvezza per noi (12,10–11; Sal
118,22). Per esprimere questo la Bibbia usa una frase un po’
urtante per noi e, saltando le cause seconde (sono gli uomini che lo
consegnano alla morte), dice che è Dio colui che consegna il Figlio
suo alla morte per noi. La dottrina rimane quindi chiara: attraverso
Gesù, anche in queste tristi circostanze, continua a svilupparsi la
storia della salvezza.
Marco,
nel suo ragionamento, ha delineato una reale immagine di Gesù. Per
lui Gesù continua a vivere nella piena coscienza di ciò che sta per
accadergli. Usando parole tolte dall’Antico Testamento, Marco ci
dice che Gesù era cosciente di essere unito all’agire salvifico
del Padre e che vi si aggrappa, come dimostra l’istituzione
dell’eucaristia, con tutte le sue forze.
Il
lamento di Gesù su Giuda: «Guai a quell’uomo» non è una
predizione di condanna eterna. Viene giudicato l’atto in se stesso,
in termini simili a quelli con i quali Gesù aveva giudicato lo
scandalo (9,42): tradire il Figlio dell’uomo è così ignobile, che
sarebbe meglio non aver neppure visto la luce.
Sdraiato a mensa
con i suoi, il Signore della vita annuncia la sua morte per noi, e si
offre come cibo e bevanda a noi che lo uccidiamo. Davanti a lui che
si dona, si evidenzia il nostro peccato. Se per l’unguento di
Betania i discepoli si erano domandati: «A che pro tutto questo
spreco?», cosa dovrebbero dire di fronte al dono della vita di Gesù
e all’eucaristia?
Ogni
discepolo, che sta con lui attorno alla stessa tavola, si chiede:
«Sono forse io colui che tradisce Cristo e lo consegna alla morte?».
La risposta è facile. Se non sono dalla parte di Gesù e della donna
di Betania, sono tra coloro che lo vendono, lo comprano, lo
consegnano, lo prendono e lo uccidono. Se non sono nell’economia
dell’amore e della vita, sono in quella dell’egoismo e della
morte. Se non vivo il dono che ricevo, donando a mia volta, sono
chiuso nell’inferno del mio io, nemico di me, degli altri e di Dio.
Giuda
non è il mostro che siamo abituati a pensare. Egli ha tanti fratelli
quanti sono gli uomini. Il suo peccato è identico al nostro. Il suo
suicidio, tentativo estremo di autogiustificazione, è mancanza di
conoscenza dell’amore gratuito di Dio, tentativo di guadagnarsi il
perdono con il massimo della punizione e della pena.
L’uomo
non può salvarsi da sé. Ogni suo tentativo in questa direzione
aggrava la sua situazione e il suo peccato. Egli deve avere l’umiltà
di lasciarsi salvare gratuitamente da Cristo, senza possibilità
alcuna di sdebitarsi. L’essenza del vangelo, manifestata da Gesù
che muore in croce, è questa: Dio è amore infinito, incondizionato
e gratuito per tutti i peccatori.
Gesù
si dona a una comunità di persone che lo tradiscono, lo rinnegano e
fuggono. E si dona non «nonostante» questo, ma proprio «per
questo». Lo annuncia in anticipo perché sappiamo che il suo amore
si riversa su di noi gratuitamente, non per i nostri meriti, anzi
prevedendo i nostri peccati. Noi, invece, vorremmo sempre un amore
meritato, senza accorgerci che, se è meritato, non è amore. Sarebbe
uno stipendio dovuto e non un dono di grazia.
Il
cristiano trova in Giuda la sua prima identificazione (poi ce ne
saranno altre) se vuol comprendere che Gesù muore per lui.
La
nostra miseria è il recipiente della misericordia di Dio. Il nostro
peccato è la nostra parte di Vangelo. L’altra è il suo perdono,
che fa della nostra perdizione il luogo della sua salvezza.