"Capisci ciò che leggi?" - Lettura continua del Vangelo di Marco: Mc 13,1-4
Mc 13,1 Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: "Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!".
2Gesù gli rispose: "Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta".
3Mentre
stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro,
Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte:
4"Di' a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?".
Per
un conoscitore della Bibbia, è assai difficile leggere questi pochi
versetti senza ricorrere col pensiero ai capitoli 8–11 del profeta
Ezechiele. Molte Bibbie li intitolano così: ‘La gloria di Iahvè
abbandona il tempio’.. Si trattava del grandioso tempio del re
Salomone, considerato dai fedeli la casa di Dio sulla terra. Il
profeta lo contempla e vede la gloria di Dio (un’immagine per dire
Dio) che si alza e abbandona la sua casa. Dopo un breve tragitto, si
sofferma un po’ sulla porta orientale del tempio per poi
abbandonare definitivamente la città e fermarsi sul monte degli
Ulivi. La città, senza Dio, è così destinata alla rovina e alla
morte. Ciò avvenne l’anno 587 a.C.
Qualcosa
di simile si ripete con l’uscita di Gesù dal tempio. E Marco ci ha
preparati a questi avvenimenti. Egli ha presentato Gesù che accusa
Israele di essere come una pianta che non dà frutto, e di avere
impedito che il tempio fosse una casa di preghiera per tutte le
genti; e ha pure presentato Gesù come pietra fondamentale di un
nuovo edificio, di un nuovo popolo: la Chiesa. Ora, dopo lunghe
controversie, Marco ritorna al tema della condanna di Israele, e
presenta Gesù che abbandona il tempio e ne predice la rovina: «Non
rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta» (v. 2).
Non hanno voluto
accogliere Gesù come il Messia, come colui che instaura il Regno di
Dio e ne realizza la presenza sulla terra. Ebbene, lui li abbandona.
E dove non c’è lui ci può essere solo fallimento e rovina.
I
discepoli vogliono indagare e lo interrogano in disparte: «Dicci,
quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose
staranno per compiersi?». La domanda è limitata alla distruzione
del tempio, ma la risposta di Gesù andrà oltre questo evento, per
prospettarne un altro molto più importante. Quello che conta per il
discepolo non è la data o i segni della distruzione di Gerusalemme.
Ciò che conta è il modo di vivere l’attesa del Signore.
L’uomo
è l’unico animale che sa di dover morire. Cosciente della propria
morte, cerca di sapere quando sarà; ne spia i segni nell’illusione
di controllarla. Ma, proprio così, invece di scansarla o
allontanarla, si fa sua preda anticipata. Cade sotto il suo dominio
dispotico, soggiogato dalla paura.
Il
vangelo non soddisfa il nostro prurito di curiosare circa il futuro.
Non vuole alimentare la nostra ansia, ma vincerla con la fiducia. Con
la croce è già venuta la fine del mondo vecchio e il principio di
quello nuovo. Ciò che è avvenuto nel Signore è quanto avviene e
avverrà a ciascuno di noi e a tutta la storia.
Il
cap. 13 non intende far previsioni catastrofiche e ineluttabili. Alla
luce della storia di Gesù, vuol farci leggere il nostro presente per
viverlo con responsabilità e determinare così il nostro futuro, che
dipende appunto da ciò che facciamo ora. Ciò che conta è il
presente, come luogo della fedeltà al Signore.
Questo
discorso, più che dirci le ultime cose che avverranno, ci svela il
senso ultimo delle cose che avvengono. Gran parte di esso parla di
guerre, carestie e terremoti. Non sono che gli ingredienti della
nostra storia, quella di tutti i tempi, posta sotto il segno del
peccato. È nella nostra storia attuale che noi viviamo la nostra
pasqua di morte e risurrezione. I rantoli del vecchio mondo che
agonizza sono anche le doglie del parto del mondo nuovo che nasce. Le
parole che qui Gesù dice si sono avverate nella sua epoca e si
avvereranno in ogni epoca. Per questo l’evangelista dice: «Chi
legge, capisca!» (v. 14). Infatti, la storia di Gesù rivela il
mistero dell’uomo e del cosmo: in lui è il destino di tutto e di
tutti.
Il
discepolo sa che c’è una fine: la morte. Ma sa anche che c’è un
fine: la risurrezione. Questo illumina tutto del suo vero senso, e
gli infonde una fiducia costruttiva. A differenza di chi segue delle
ideologie, egli non si illude e non si delude. Gli altri sono
ottimisti o pessimisti; lui è realista perché ha speranza.