Sette nuovi sacerdoti per la Diocesi. Grandi feste nelle
comunità dove questi giovani sono nati e cresciuti e grande
soddisfazione di una Chiesa, la nostra, dove, a differenza di molte
altre in Italia, fioriscono ancora vocazioni sacerdotali. Di questo e di
molto altro bisogna ringraziare il Signore. L’augurio a tutti loro lo
faccio con le parole che papa Francesco, lo scorso mese di aprile, ha
rivolto ai seminaristi del Pontificio Collegio Leoniano di Anagni: «Voi
non vi state preparando a fare un mestiere, a diventare funzionari di
un’azienda o di un organismo burocratico. Abbiamo tanti, tanti preti a
metà cammino … Un dolore, che non sono riusciti ad arrivare al cammino
completo; hanno qualcosa dei funzionari, qualche dimensione burocratica e
questo non fa bene alla Chiesa». Il sacerdozio è una realtà
grandissima, «è una cosa troppo grande, e noi siamo tanto piccoli»,
eppure in tanti casi si diventa davvero buoni preti perché «non è opera
nostra», «è opera dello Spirito Santo, con la nostra collaborazione».
UNA CRISI DI NUMERI INARRESTABILE
Dopo la festa, il conto. Occorre, cioè, guardare dentro i numeri. Per evitare illusioni e, se abbiamo coraggio, per cominciare a sperimentare quello che, inevitabilmente, saremo costretti a fare tra qualche anno. Che piaccia o meno. I numeri restituiscono, brutalmente, anche nella nostra diocesi, un dato incontrovertibile: la continua, progressiva – e, a prima vista, inarrestabile – diminuzione dei preti.
Anno dopo anno, nonostante alcune eccezioni, il numero degli ordinati
diminuisce. Un saldo negativo sempre più pesante. Tra i sacerdoti che
muoiono e quelli che abbandonano (e non sono pochi nell’ultimo decennio)
sono sempre meno e si alza la loro età media. Un numero ogni anno più
grande di parrocchie non vede più la presenza del curato.
Certo, il trend è in linea con quello europeo (non mondiale, dove grazie
all’incremento di preti in Africa e in Asia il segno è positivo): dal
1978 ad oggi i sacerdoti diocesani in Italia sono calati del 30% mentre
secondo i dati della Conferenza taliana dei superiori maggiori (Cism)
pubblicati dall’Annuarium Statisticum, il calo dei sacerdoti religiosi è
stato ancora più drastico: da 21.500 nel 1978 a circa 12mila nel 2012.
Più del 40% in meno.
CATASTROFE? NO, UN PARTO
Una situazione di questo genere è vista da molti come una catastrofe,
una rovina. A me piace immaginarla, invece, con un’altra immagine:
quella del parto. Si sono rotte le acque, la disgregazione del
precedente equilibrio è in funzione di uno nuovo. Ciò che sta accadendo
nelle Chiese d’occidente non è la fine del mondo ma la fine di un certo
mondo e l’inizio di un mondo nuovo. Non è la fine del Cristianesimo ma di un certo Cristianesimo. E se uno ha gli occhi della fede può cominciare a intravedere i germi di un ricominciamento.
Mi chiedo infatti se la cosiddetta crisi vocazionale sia piuttosto un segno dei tempi
con cui Dio vuole parlare ad una Chiesa distratta per costringerla a
prendere decisioni inedite ma epocali, adeguate alle esigenze del
presente per rispondere in tempo all’anelito di Dio che sale dalle
viscere del mondo.
Quante volte lo diciamo: finché le parrocchie resteranno centrate sul
clericalismo, nessuna pastorale smuoverà l’immobilismo in cui ci si
trova. È necessario che il prete non assommi in sé tutti i ruoli
funzionali: leader, liturgo, economo, organizzatore, animatore ecc., ma
riservi a sé il servizio dell’unità, della preghiera e della Parola,
lasciando tutto il resto a chi può e sa farlo meglio di lui. Non è forse
giunto il momento di cominciare a mettere in pratica tutto questo?