La parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) che ci accompagna verso la
fine di questo anno liturgico ci presenta il tema dell’impegno a far
fruttificare i doni ricevuti da Dio, che ritroviamo anche nella prima
lettura (Pr 31, 10-31) applicato alla figura della donna industriosa. È
il brano conclusivo dell’intero libro dei Proverbi e forse, anche se il
libro è una raccolta di detti abbastanza eterogenea, il suo punto più
alto, il trapasso da una serie di considerazioni di saggezza
quotidiana, ad un livello diverso, riassuntivo di un’esistenza che
porta a compimento il disegno di Dio. Nell’elogio finale del marito alla
moglie, perfetta padrona di casa: «Molte figlie hanno compiuto cose
eccellenti, ma tu le hai superate tutte!» (v. 29), trasparisce la figura
di colei che tutte le nazioni diranno beata (cf. Lc 2,48) non perché
abbia saputo ben organizzare la sua famiglia ma perché si è messa a
servizio del piano di salvezza di Dio.
Credo che questa
considerazione sia utile anche per ben comprendere il significato
dell’impegno per portare frutti che troviamo nel Vangelo, poiché si
tratta di qualcosa che travalica il semplice darsi da fare. Vi è
un’affermazione in questo brano, che ritorna anche in altre pagine dei
Vangeli: «a chiunque ha sarà dato ...ma a chi non ha sarà tolto anche
quello che ha» (v. 29) e che può suscitare meraviglia, e perfino
disaccordo. Perché togliere il capitale al servo inadempiente e darlo a
chi ne ha già in abbondanza? Forse può crearci disagio questo
atteggiamento, espresso fra l’altro apertamente dai personaggi della
parabola nella versione di Luca (cf. Lc 19,25), e del resto abbiamo
incontrato anche recentemente un comportamento simile nella parabola
degli operai (Mt 20, 1-16): la contabilità di Dio è abbastanza diversa
dalla nostra.
Dovremmo però fare attenzione a prendere la parabola
di oggi, come pure il brano di Proverbi, come semplice glorificazione
dell’imprenditoria umana. Nella spiritualità protestante, con gradi
diversi, l’attività umana e il successo negli affari sono considerati un
segno della benedizione di Dio e, specialmente nel mondo anglosassone,
la povertà vista come frutto delle scelte individuali (da qui una,
forse non la sola, difficoltà per programmi di assistenza sociale,
welfare, eccetera).
Credo che il versetto evangelico significhi
altro, è la descrizione di un fatto, ovvero che la vita funziona in
questo modo, che non solo i beni, ma i pensieri, i sentimenti, le
relazioni non possono essere congelati, ma solo vissuti. Colui che mette
fra parentesi i sentimenti, i valori (magari proprio perché è impegnato
nei suoi affari) e rimanda a domani, a quando avrà tempo, finirà per
perdere tutto, mentre chi si mette in gioco in questi termini entra in
un processo di crescita (non semplicemente accumulo) che permette di
espandere la sua vita verso la pienezza, diventando (mi si perdoni il
termine un po’ a effetto) «imprenditore di senso».
La lontananza
con un’idea di impegno concentrato solo su se stessi è dato anche dal
prosieguo del Vangelo, il grande affresco del giudizio finale di Mt 25,
31-46. Il capitale affidato a ciascuno è l’altro, il povero, l’affamato,
che non è classificabile come fannullone o irresponsabile, il «talento»
è proprio lui, culmine del rovesciamento della contabilità di Dio.
Aprire gli occhi, accorgersene, o tirare dritto senza consapevolezza è
ciò che fa la differenza. Lo aveva capito san Lorenzo, quando affermava
che il vero tesoro della Chiesa sono i poveri.
Il vangelo in poche parole