Mi raccontava il parroco di Belsito che suo padre, dopo aver ascoltato le sue prime omelie, gli dis-se molto direttamente: «
Senti. Se le tue prediche non le capisco io, puoi tralasciare di farle».
Da quel momento, il farsi capire nella predicazione da
persone semplici (ma tutt’altro che stupide) come suo padre e sua madre,
è sempre stata la sua prima preoccupazione, insieme, naturalmente, manco a dirlo, con quella di offrire loro dei contenuti non banali.
LA FATICACCIA DELLA PREPARAZIONE
Curava – mi dice – il contenuto delle prediche prima di tutto con
quello che aveva studiato in seminario e poi con le sue letture
seguenti, abbastanza costanti pur nello stress del ministero e in fine
con la meditazione personale, perché la Parola convertisse prima lui e
poi gli ascoltatori.
Particolarmente interessante il modo in cui, con due suoi compagni,
curò fin dal seminario la semplicità del linguaggio. Preparavano per
esercizio delle omelie e poi a turno ognuno leggeva il suo testo agli
altri, i quali, ad ogni luogo comune, o ad ogni frase espressa troppo in
teologhese, intervenivano e chiedevano: «Cioé? Che cosa vuoi dire in
concreto?». L’apprendista predicatore doveva sciogliere il luogo comune
in termini più vivi e doveva spiegare in parole semplici le frasi troppo
teologiche. A volte non bastava un “cioè”, ma arrivavano a chiederselo
anche fino a tre volte. Dopodiché nel testo finale entrava solo la fase
che aveva superato il terzo “cioè”.
Personalmente poi, in confessionale, dovendo parlare in bergamasco,
scoprì che, il dialetto non gli offriva parole adatte per tradurre
concetti teologicamente pregnanti. Fu così che, nel preparare le omelie,
dovendo utilizzare parole difficilmente comprensibili dai suoi
genitori, pensava per un momento a come avrebbe potuto spiegare loro
quel concetto in dialetto, poi metteva per scritto la traduzione
letterale italiana della frase in dialetto. Fu un lavoro – racconta
sorridendo il parroco di Belsito – che lo impegnò per diversi anni
finché tutto non gli venne spontaneo.
ENORMI DIFFICOLTÀ
Il tutto però gli fece scoprire che l’omelia è il genere di predicazione più difficile ed impegnativo.
Ci si rivolge innanzi tutto a un pubblico eterogeneo al massimo:
bambini, anziani; adolescenti in crisi, studenti e lavoratori; operai e
impiegati; liberi professionisti, commercianti, artigiani e
disoccupati, singles e mamme di famiglia, coniugi felicemente sposati,
altri in crisi, separati, divorziati, santi e peccatori, e poi i sani e i
malati. E ognuno avrebbe bisogno di una parola proprio per lui.
Ma poi ci sono altri problemi. L’omelia è parte integrante della
liturgia della Parola. Non è una conferenza, non è una lezione, men che
meno un discorso tipo comizio. Il predicatore è lì a fare da mediatore
tra il cuore del Signore, che parla nelle letture proclamate in quel giorno, in quella celebrazione, e il cuore del suo popolo che ascolta in silenzio con tutti i suoi bisogni e le sue attese.
Perciò al predicatore servirebbe tempo. Invece non può tenerla tanto
lunga per rispettare il ritmo della celebrazione e soprattutto perché
non sembri che l’omelia è la parte principale della celebrazione stessa.
La parte principale è la presenza di Gesù che si dona nella
consacrazione e nella comunione. Ed è proprio per disporre i fedeli a
questo incontro che egli fa l’omelia.
COME UNA MADRE CHE CONVERSA CON I FIGLI
Nei giorni scorsi ci siam trovati, il parroco di Belsito e io. Era scoraggiato. Le critiche che gli vengono da versanti opposti e per opposte ragioni
lo fan sentire, a suo dire, sempre meno all’altezza del suo compito.
Per me è solo vittima di opposte insoddisfazioni non componibili.
L’ho confortato con l’Evangelii Gaudium (la gioia del Vangelo) di
Papa Francesco che ai nn. 135-159 tratta proprio dell’omelia. Molto di
ciò che dice il Papa egli lo sta già facendo. Vi troverà poi alcune
bellissime proposte, che lo invoglieranno a migliorare sempre, come
quella in cui paragona l’omelia alla conversazione di una madre con i suoi figli
(139-141). Con ciò il Papa non dice che nell’omelia si deve essere
sdolcinati come certe mamme al caramello. La buona mamma sa ovviamente
consolare, incoraggiare, coccolare, ma sa anche consigliare, correggere,
indirizzare e, se occorre, anche rimproverare. Noi predicatori – dice
il Papa – dobbiamo parlare con cuore materno, non scoraggiandoci se per
ragioni diverse ci capita di annoiare perché chi ci ascolta è chiamato a
porsi con cuore di figlio davanti alla santa Madre Chiesa, sapendo che
un’omelia “sarà sempre feconda, come i noiosi consigli di una madre
danno frutto col tempo nel cuore dei figli” (n. 140).
IL TUO PARERE
Racconta le prediche pizzose. Spiega anche perché sono pizzose.
Racconta qualcosa delle prediche che lasciano qualcosa. E racconta anche
che cosa lasciano.
don Giacomo Panfilo
Da www.santalessandro.org