In campo pastorale, i francesi la chiamano “la petite cuisine”,
ed è l’attività pastorale di basso profilo, senza fantasia né slanci
creativi particolari e con orizzonti ristretti; nella migliore delle
ipotesi, la gestione dell’ordinario tradizionale.
LA “PICCOLA CUCINA”
Temo che anche noi a Bergamo e in Italia ci siamo dentro in pieno. C’è da dire che il contesto ecclesiale non aiuta molto: sempre le stesse facce,
sempre la stessa minestra, gli stessi impegni, le stesse attese da
parte dei fedeli (parlo da parroco), le stesse pretese, le stesse
critiche sugli stessi dettagli marginali, la stessa refrattarietà alla
minima proposta di cambiamento. Oppure, dall’altro versante, la stessa
petulante proposta di ricette utopistiche che appagano
indebitamente il cuore di chi le fa senza il minimo costo personale, e
amareggiano ulteriormente quello di chi, nonostante la buona volontà,
non riesce proprio ad andar fuori nemmeno di un metro dalla propria
“piccola cucina”.
ANCHE I SUPERIORI FANNO LA “PICCOLA CUCINA”
Tra chi soffre per questa situazione e vorrebbe venirne fuori, senza
riuscirci, c’è qualcuno che crede ancora che la gerarchia abbia in
dotazione dei lumi particolari, e si aspetta quindi un aiuto risolutivo
dall’alto. Ecco perciò l’attesa di prese di posizioni e direttive
chiare da parte dei “superiori”, che blocchino d’autorità orientamenti
ritenuti indebiti e spalanchino autostrade a orientamenti precisi
ritenuti necessari per uscire dall’impasse. Ma non si tiene conto che
anche loro, i nostri pastori, provengono dalle nostre stesse file e son
cresciuti nella stessa “piccola cucina”. E poi, il più saggio che ho
conosciuto di loro, quando gli ho fatto presente questa attesa della
base, mi ha risposto: «Perché le cose vadano bene, mio caro, le idee non
devono andare avanti o cadere per l’appoggio o il boicottaggio
dell’autorità, ma per la loro consistenza nella dialettica reciproca».
Giusto, giustissimo! Ma in una “piccola cucina” è pensabile la capacità
di progettare dialetticamente portate diverse, più adeguate ai bisogni
nutrizionali di oggi?
È così che noi siamo finiti in una specie di letargo pastorale.
LETARGO PASTORALE
Sentii nominare per la prima volta la “létargie pastorale” dagli
svizzeri romandi, quando, tra il ’70 e l’80, passai tra loro circa sette
anni. Noi eravamo ancora in pieno fervore post-conciliare; essi invece
stavano già sperimentando fortemente la crisi della scristianizzazione.
Per loro incoraggiamento – ricordo – buttai là un’osservazione che li
fece sorridere perché praticamente era l’elogio del letargo.
Il letargo – dicevo infatti – per l’opinione comune ha una nomea
spregiativa; in realtà per molte bestie è l’unica preziosa risorsa che
la natura ha loro regalato per non soccombere nei rigori invernali.
Passato l’inverno, questi animali tornano a folleggiare alla vita vispi
come non mai, perché nel frattempo la natura ha lavorato per loro come in una feconda incubazione.
Ora quell’osservazione consolatoria torna buona per me, per noi oggi,
nel tedio immenso sia delle stagnazioni personali, sia di quelle
ecclesiali. A una condizione però: che in questo periodo di letargo
lasciamo lavorare la grazia e i doni dello Spirito santo, che
effettivamente, continuano ad operare in chi , nonostante tutto, ha il
cuore vivo e buono.
E c’è un’ultima osservazione da tener presente: gli zoologi affermano che il letargo è meno rischioso se gli animali interessati lo sopportano non isolatamente. ma insieme.