Policentrismo parallelo. In questo modo,
Giuseppe De Rita definiva, pochi anni fa, con acutezza ciò che stava
accadendo alla chiesa italiana. «La Chiesa – diceva in un’intervista –
non rinuncerà mai alla Curia né alle conferenze episcopali locali,
altrimenti sarà impossibile governare un miliardo di cattolici. Però si
assisterà sempre di più a due concezioni della Chiesa: il centralismo e
le realtà locali, spesso effervescenti e vitalissime. È un problema che
riguarda il destino stesso del cattolicesimo». Lo conferma un altro
sociologo, Luca Diotallevi: «Se una caratteristica strutturale della
chiesa cattolica esiste, questa è la sua pluralità, la sua ricchezza
strutturale: il Vaticano, le diocesi, le conferenze episcopali, le
parrocchie e il laicato associato come l’Azione cattolica, il
monachesimo, i religiosi e i movimenti, le opere sociali, le famiglie, i
cattolici impegnati in economia, scienza e politica… Solo in momenti
storici eccezionali (ad esempio la lotta contro il comunismo nel secondo
dopoguerra) troviamo la chiesa in tutte le sue espressioni
temporaneamente riallineata e costretta dalla necessità a manifestarsi
quasi come parte politica. Più la società cresce, invece, e cresce
perché acquisisce il respiro di istituzioni differenti, più la chiesa si
esprime anche visibilmente in diversità e pienezza senza nulla togliere
al ministero dell’episcopato e senza tutto ridurre a quello. Del resto,
le chiese cristiane sono state e sono matrici e presidio della ‘società
aperta’».
UN CRISTIANESIMO “PLURALE”
Che questo sia vero, è sotto gli occhi di tutti. Una pluralità di
letture che, a volte, spaventa il presunto monolitico mondo cattolico.
Su molte questioni i cristiani si dividono, dando l’idea a certuni che
esistano “molti cattolicesimi”. Non solo quando scelgono un partito
(dopo la fine della Democrazia Cristiana si sono dispersi, senza
grandi patemi e, a volte, perfino con troppa disinvoltura, nei
molti rivoli della politica italiana) ma anche quando ragionano di
presenza nel mondo, di discernimento etico, di giudizio sulla storia e
di economia, di sessualità, di bioetica. Qualcuno si è spinto a parlare
di “scisma sommerso”, forse enfatizzando un fenomeno che non può però
essere ignorato. Certo, il più delle volte, venendo progressivamente
meno un’ethos ecclesiale che permetta un dialogo franco, questa
diversità sta sotto traccia o viene nascosta sotto un mare di parole o
di finti unanimismi. Eppure, a ben pensarci, fin dalle sue origini il
cristianesimo è plurale: l’unico Dio narrato da Gesù Cristo può
essere ridetto al mondo solo in una pluralità di espressioni. Non a
caso la Chiesa ha riconosciuto canonici quattro vangeli, e non uno solo,
e li ha accolti accanto a una molteplicità di scritti del Nuovo
Testamento che rendono una testimonianza multiforme all’«unico Signore,
Gesù Cristo» (1Cor 8,6). Non la fissità di un libro, dunque, ma la
dinamicità di un evento suscitato dallo Spirito Santo, che è la libertà
di Dio, è all’origine del cristianesimo. «Questo pluralismo di
espressioni testuali, cui corrisponde a livello storico e di fede un
pluralismo di espressioni ecclesiali, di concezioni cristologiche, di
usi liturgici, di accenti spirituali, riflette l’inesauribilità del
mistero di Dio rivelato in Cristo Gesù e accolto in culture diverse»
(Luciano Manicardi).
La diversità, dunque, è costitutiva dell’unità ed è essenziale alla comunione, così come l’alterità è essenziale all’identità. La diversità nella Chiesa e tra le Chiese appartiene all’humus
del cristianesimo e non va eliminata: sempre lo stesso Spirito
manifesterà, nelle diverse persone e culture, comprensioni plurali,
differenziate, dell’unico volto di Cristo in cui risplende la gloria
dell’unico Dio Padre di tutti. Certo, questo comporta che nessuno può
pretendere di “possedere” la verità. «Cristo risorto vi precede in
Galilea» viene detto alle donne che sostano davanti al sepolcro,
accorse per imbalsamare il corpo di Gesù. Occorre percepire che le
definizioni della verità stanno all’interno del grande movimento della
ricerca della verità, dell’approssimazione – sempre imperfetta – alla
verità. Se a questa coscienza umile si sostituisce la pretesa di
possedere la verità (confusa con la sua definizione) si finisce in un
imperialismo culturale, in cui l’inculturazione del cristianesimo viene
fatta prevalere sul Cristo stesso e in cui il rivestimento culturale
assume maggiore importanza del Vangelo. Allora la violenza, il
fanatismo, l’intransigenza saranno inevitabilmente in agguato.
CRESCERE NELL’ASCOLTO E NEL DIALOGO
Un compito complesso spetta dunque ai cristiani che colgono il valore di questo pluralismo vitale e vivificante. Imparare l’arte dell’ascolto.
Della Parola che giudica, anzitutto. Ma anche delle parole degli altri,
di quanti, condividendo la stessa fede in Cristo, si pongono
diversamente di fronte al mondo. Per questo, occorre far crescere autentici luoghi di confronto e di dialogo. La verità è sinfonica,
titolava anni fa un libro di von Balthasar. L’unità intesa come
comunione nella verità, dove le differenze non si scompongono e
auto-isolano in rovinosi particolarismi, ma si saldano in una
reciprocità che guarda sempre al bene più grande, cioè la verità piena,
totale e armonica. Quando vengono a mancare questi presupposti,
l’approccio alla verità diventa una “mono-fonia” – come sottolineava
l’allora cardinal Ratzinger in una conferenza tenuta all’Accademia
Alfonsiana il 21 maggio 1985 – anziché essere una “sin-fonia”; un canto
omofono, invece che polifonico.
Com’è il nostro canto?