Forse è giusto che l’itinerario per raggiungere i fratelli e le
sorelle di Montesole non sia troppo agevole. Con la fine, a metà della
salita su per l’appennino tosco-emiliano, della strada asfaltata, la
Comunità probabilmente desidera proteggere la propria pace. O forse
tutto questo è il segno di un territorio che è rimasto abbandonato e
maledetto per lunghissimi anni.
Per orientarsi, i punti di riferimento non sono le segnalazioni
stradali abituali, ma le testimonianze di una storia ancora recente ed
angosciosa. Si intravedono, da lontano, i resti di chiese e di case, si
passa vicino alla chiesa di Casaglia, quasi interamente distrutta dopo
le bombe a mano e l’incendio dei nazifascisti. Si passa davanti al
piccolo Cimitero dove furono assassinate, il 29 settembre del 1944,
decine e decine di persone, per lo più donne e bambini.
Dove ieri c’erano campi, vigne e boschi ordinati, oggi ci sono rovi e
alberi cresciuti ovunque. Il silenzio avvolge questi luoghi oramai
disabitati e li riveste di una sacralità che ha i contorni dei volti
degli innocenti trucidati senza ragione.
Istintivamente, ti vengono in mente le ultime righe di un libro di Wiesel, il lucido testimone della Shoà da poco scomparso: congedando i suoi personaggi, i morti evocati, dice che
il silenzio, più della parola, rimane la sostanza e il
segno di ciò che fu il loro universo e, come la parola, il silenzio
s’impone e chiede di essere trasmesso.
Forse per questo, il mandato della Chiesa bolognese, a firma del cardinal Biffi,
a metà degli anni Ottanta, ha voluto che dei credenti, uomini e donne,
vigilassero sui morti, richiamassero i vivi alla verità e alla
giustizia, esercitassero, nello spirito e nella storia, la diaconia
della memoria.
E forse non a caso ha voluto che su quei luoghi si impiantassero fratelli e sorelle della Piccola Famiglia dell’Annunziata,
una realtà ecclesiale nata nel 1955 con la stesura della Piccola Regola
(prime professioni perpetue, nelle mani del cardinal Lercaro, il giorno
dell’epifania del 1956), da una delle figure più significative del
cattolicesimo italiano del Novecento: don Giuseppe Dossetti.
Una comunità di semplici fedeli, di cristiani
“Non siamo una comunità propriamente religiosa, in senso
canonico, e anche se (per una convenzione molto empirica) non rifiutiamo
il titolo di comunità monastica, tuttavia ci sentiamo anche un po’
traditi da quel titolo e preferiamo per noi quello di una comunità di
semplici fedeli, di cristiani, tendenti semplicemente a una vita di
lavoro e preghiera.
Vorremmo lasciar cadere ogni particolare distinzione (il
vestito stesso non vuole essere una divisa, ma solo un abito molto
povero e un rimedio, sia pure inadeguato, per non subire abiti mondani
troppo conformistici e spesso dissacranti): insomma, puntiamo su una
vita in certo senso qualunque, purché possa restare vita seriamente
laboriosa e molto raccolta tanto quanto è necessario per dare
precisamente il massimo spazio – massimo quantitativo e qualitativo –
alla familiarità operosa con le Divine Scritture”.
Così Dossetti cercava di spiegare la singolarità di questa
esperienza. A raccontarmela, in una splendida giornata di sole, è Paolo
Barabino, un monaco di origini genovesi che, con grande disponibilità,
mi ha accompagnato durante la visita.
Paolo dice che la Piccola Famiglia dell’Annunziata – dal 1986
Associazione pubblica di fedeli – da sempre coltiva la convinzione del
primato della vocazione e consacrazione battesimale e perciò della
vocazione alla santità di tutto il popolo di Dio.
Questo spiega una caratteristica singolare, che mi ha molto colpito:
la presenza, accanto a fratelli e sorelle che vivono pienamente la vita
monastica, di sposi accomunati dallo stesso fine. A loro è
chiesto di vivere, dentro la propria condizione di vita e abitando nelle
proprie case, la cura della Parola, la preghiera e l’Eucarestia
(possibilmente quotidiana).
Gli sposi, dopo un cammino di discernimento, entrano a far pienamente
parte della Piccola Famiglia e non sono un Terz’ordine. Partecipano al
Capitolo Generale che si tiene un paio di volte l’anno (in estate e
durante le vacanze natalizie) e assumono ruoli e impegni all’interno
della Comunità.
Oggi, una ventina di fratelli, cinquanta sorelle e una quarantina di
famiglie compongono questa comunità particolare che è presente in
diversi luoghi: anzitutto a Monteveglio, per molti anni il centro
originario della comunità, posto nella Valle del Samoggia, a venti
chilometri da Bologna; poi in Calabria, vicino a Paola, diocesi di San
Marco Argentano, dove vive una comunità di sorelle e, dal 1984, su
richiesta della Diocesi di Bologna, a Montesole, a piangere le ferite
indimenticabili della guerra e a testimoniare la forza di
riconciliazione che ha la Parola di Dio. Due sorelle sono a Roma, mentre
le famiglie sono più distribuite: oltre ai luoghi dove è presente un
monastero, anche a Bologna città, Modena, Reggio Emilia, Parma, Verona…
La Piccola Famiglia si insedia in Terra Santa dal 1972 a
Gerico e Gerusalemme per poi divenire responsabile, dal 1983, su invito
del Patriarca Latino di Gerusalemme, della parrocchia di Ma’in in
Giordania e, dal 1988, della parrocchia di Ain Arik, vicino a Ramallah.
Queste comunità, per fedeltà alla scelta di pieno inserimento nella
Chiesa locale, officiano tutta la Liturgia in arabo.
Il Vangelo sine glossa
Diceva ancora Dossetti, nel suo ultimo discorso pubblico:
Che i preti e i laici, senza differenze quasi,
s’immergano nel Vangelo. Questo lo dico con una particolarissima e
specifica insistenza, anche quantitativa: leggerlo, leggerlo, leggerlo,
leggerlo, formarvi su di esso, sul Vangelo letto infinitamente, mille
volte al giorno se fosse possibile, sine glossa, il più possibile in
lettura continua. Leggete il Vangelo, turandovi le orecchie e sradicando
i pensieri, per così dire; e ci pensa poi Lui a sradicarli ancora più
profondamente.
Ma deve essere un rapporto continuo, personale, vissuto,
creduto con tutto l’essere: e sapendo di accogliere la parola di Dio
come Gesù l’ha seminata quando andava per le strade della Galilea.
Ascoltare il Vangelo così com’è, senza glossa, come diceva S. Francesco,
continuamente, in modo che raschi il nostro cervello, veramente lo
raschi completamente, e invece vi plasmi lo spirito […]. Il Vangelo e i
Salmi, continuamente alternati [… ]. E poi bisogna immergersi nella
storia, conoscerla, non superficialmente, ma profondamente.
Non potete fare a meno di conoscerla, di studiarla. E di
studiare non solo la storia della Chiesa, ma anche la storia della
civiltà e della società civile, della società e della civiltà profana,
di quella che noi chiamiamo “la storia mondana”. Perché il mondo c’è; è
una componente essenziale dell’opera del Creatore e Redentore. E quindi
bisogna averne il senso” (Discorso ai preti foggiani).
“La preghiera – prosegue Paolo – è un cardine della nostra
esperienza. Don Giuseppe ce lo ripeteva spesso che ritirarci su un monte
non doveva essere una fuga. Se ci ritiriamo dal mondo e se in qualche
modo non ci assumiamo delle responsabilità dirette ed immediate, questo
ci obbliga ad un approfondimento della intercessione e della solidarietà
dello spirito con tutti i sofferenti. Intercedere per il mondo,
ricordare per nome i luoghi di guerra e i dolori più profondi del nostro
tempo. Lanciare il cuore oltre gli angusti confini del nostro io e del
nostro piccolo mondo attorno per farlo compagno di strada dell’umanità.
La vita in monastero è anche vita di obbedienza, a volte dura e
faticosa, sempre da riconquistare, però la posta in palio è proprio la
liberazione dall’io, come dice il rito della Professione, dopo
l’espressione dei voti: “Se, confidando solo nella fedeltà di Dio,
consegnerai tutto te stesso a questa comunità … potrai sperarne l’umiltà
che è puro dono di Dio, la purificazione della mente, la piena libertà
da te stesso, la dilatazione del cuore per la pienezza della carità
verso il prossimo e per l’adorazione pure del Dio vivente”.
La fede nuda e pura
Quanto vi manca don Giuseppe? chiedo, alla fine della giornata
trascorsa insieme, a Paolo. “Molto. Manca la sua profonda libertà, la
sua capacità di discernimento sui singoli e sulla storia, l’intuizione,
profonda, di legare, indissolubilmente, fede e storia, passione di Dio e
passione per l’uomo. Certamente egli era un uomo e un credente singolare.
Per un certo verso, si è portato dietro tutto: la giovinezza e gli
studi canonistici, la lotta partigiana e l’esperienza politica, la
formazione teologica… Per altri aspetti, se ne è anche spogliato: molto
presto lascia la politica, dà vita al Centro di Documentazione perché,
dice, ‘avevo capito che non si poteva riformare la vita civile italiana
se non si riformava la Chiesa’ e avvia un rinnovamento del pensiero
teologico che riparta dalle fonti (la Bibbia e i Padri) con attenzione a
quanto si muove all’estero (siamo negli anni cinquanta!).
Quando nasce la Comunità abbandona il progetto del Centro e si
concentra interamente sulla Scrittura quasi trascurando una certa
mediazione culturale e di riflessione teologica che pure, invece, ha ben
presente. Da un lato, con il passare degli anni, si è ristretto attorno
ad alcuni elementi che ha ritenuto essenziali e, dall’altro, non ha mai
rinnegato niente.
Se pensi alla sua lotta, negli anni finali della vita, a difesa della
Costituzione…” Sì, è vero. Ho anch’io sotto gli occhi l’immagine di
questo vecchio monaco, stanco e ammalato, nel suo abito scolorito e
sdrucito, capace di levare la voce (“Sentinella, quanto manca
all’aurora?”) per difendere quelle intuizioni di libertà e di giustizia
che gli pareva venir meno nell’Italia della cosiddetta Seconda
Repubblica.
Come lucidamente ha ricordato mons.Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, nell’omelia per il ventesimo della morte di Dossetti:
Don Giuseppe, pur potendolo, non ha cercato scorciatoie o
furbizie ecclesiastiche; ha pagato di persona, sempre in obbedienza con
i suoi vescovi della chiesa di Bologna. Come un agricoltore paziente e
confidente ha seminato con abbondanza la Parola di Dio, che ha venerato
ed ha insegnato a tanti a contemplare senza mai perdere il contatto con
la realtà e l’attenzione ai segni dei tempi, con libertà e rigore. Ha
messo al centro di tutto quella Parola che il Concilio Vaticano II ha
restituito ai cristiani, dissotterrandola dall’oblio e liberandola da
surrogati, ritenuti indispensabili per paura della libertà e della
coscienza che ella genera.