Vi confesso che amo san Tommaso. Quel discepolo che aveva detto
di voler andare a Gerusalemme per morire con Gesù (Gv 11, 16) ma che poi
in realtà scappa come tutti gli altri.
Sento mia la sua ostinazione nel voler vedere, nel voler toccare.
A volte, sento mia la sua incredulità, sento mio il suo dubbio.
Si, il dubbio. Parola che abbiamo bandito dal vocabolario del credente.
Eppure compagna di strada di tanti che cercano di credere.
Ho ancora viva l’emozione che ebbi quando lessi, la prima volta, la
lettera che Bonhoeffer scrisse dal carcere di Tegel il 21 luglio del
19444: «Mi ricordo di un colloquio che ho avuto tredici anni fa in
America con un giovane pastore francese. C’eravamo posti molto
semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della
nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo (e credo possibile
che lo sia diventato); la cosa a quel tempo mi fece una forte
impressione. Tuttavia lo contraddissi e risposi press’a poco: io vorrei
imparare a credere».
LA FEDE NON È UN DATO PACIFICO
In fondo, la fede non è mai un’esperienza agevole. Per la maggioranza
delle persone è un’esperienza difficile. Anche coloro che stanno dentro
nel recinto della Chiesa e partecipano con regolarità alla sua vita,
sentono che la fede non è un dato pacifico. Sia l’Antico che il Nuovo
Testamento ci mostrano itinerari di fede non lineari, spesso contorti e
faticosi, proprio da parte di coloro che diventano nelle Scritture i
destinatari privilegiati dell’agire di Dio, i suoi testimoni e quindi
anche i modelli per il discepolo. Questa è anche l’esperienza delle
donne e degli uomini di oggi. Per nessuno la fede è un lungo fiume
tranquillo, ma è sempre un cammino, una tensione che non raramente vive
più di dubbi che di certezze, che spesso ha la connotazione della lotta
con Dio che il famoso testo di Giacobbe (Gen 32, 23-32) ci ricorda. Come
scrive Enzo Biemmi. «Il racconto mitico della lotta dell’angelo con
Giacobbe sul fiume Jabbok contiene un archetipo fondamentale di ogni
rapporto con Dio: è una lotta, dalla quale si esce con un’identità nuova (non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele), ma anche con l’anca slogata.
Cioè è una prova che lascia la cicatrice. Dio è altro, è l’altro, è
sempre al di là, oltre le nostre esperienze, e l’unico modo per entrare
in relazione con Lui, per continuare una relazione con Lui è rimettere
sempre in discussione la situazione esistente».
LA NOTTE DELLA FEDE
Che sia lotta lo hanno raccontato anche credenti di grande profilo.
Penso a Teresa di Lisieux, proclamata Dottore della Chiesa da Giovanni
Paolo II il 19 ottobre del 1997, e alle sue dolorosissime “notti della
fede” nell’ultima stagione della sua breve vita. Penso a Madre Teresa di
Calcutta le cui lettere, alcuni anni fa, hanno creato scompiglio in
molti. In una di queste scrive: «C’è tanta contraddizione nella mia
anima, un profondo anelito a Dio, così profondo da far male, una
sofferenza continua – e con ciò il sentimento di non essere voluta da
Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… Il cielo non
significa niente per me, mi appare un luogo vuoto». E in un’altra
lettera: «Dicono che la pena eterna che soffrono le anime nell’Inferno è
la perdita di Dio… Nella mia anima io sperimento proprio questa
terribile pena del danno, di Dio che non mi vuole, di Dio che non è Dio,
di Dio che in realtà non esiste. Gesù, ti prego perdona la mia
bestemmia».
IL DUBBIO NON È CONTRARIO ALLA VERITÀ
Scrive Zagrebelsky in “Contro l’etica della verità” (Laterza): «Il
dubbio non è il contrario della verità, ma può situarsi al suo interno. È
il contrario del dogmatismo. In tempi di verità granitiche che vedono
nel dubbio il pericoloso relativismo è bello osservare la scena di
Tommaso e del suo incontro con Cristo che si presenta ai discepoli in un
momento di paura». La verità ha sempre bisogno di essere ricercata e riscoperta.
E Pietro Scoppola: «Non è vero che chi cerca non crede e che chi crede
non cerca; non si può fare a meno di cercare per credere e si cessa di
cercare quando si cessa di credere». Lo ricordava con la consueta
lucidità il cardinal Martini quando, nel lontano 1987, inaugurava a
Milano “la cattedra dei non credenti”; «Ritengo che ciascuno di noi
abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si
interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e
inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il
credente che è in me e viceversa.È importante l’appropriazione di questo
dialogo interiore, poiché permette a ciascuno di crescere nella
coscienza di sé. La chiarezza e la sincerità di tale dialogo si pongono
come sintomo di raggiunta maturità umana. Mi pare dunque opportuno che i
credenti erigano simbolicamente dentro di loro una cattedra dove il non
credente possa avere parola ed essere ascoltato; ed è altrettanto
opportuno e utile che chi non crede possa dare voce e ascolto al
credente».
Per me è cosi. La fede non è un possesso definitivo, una certezza
acquisita una volta per tutte. Partecipa, piuttosto, dell’insicurezza
che caratterizza la libertà della persona e per questo credo che nel
cuore di ogni credente ci sia una certa simultaneità di fede e di incredulità.
Il dubbio fa parte del credere, quindi la precarietà, l’incertezza fa
parte della fede: ogni giorno la fede si rinnova vincendo il dubbio,
accettando di non sapere, decidendo di acconsentire liberamente a una
promessa, vivendo come pellegrini mai residenti, sentendosi non soli ma
insieme ad altri, come in una carovana. In fondo, la preghiera più bella
di tutto il Nuovo Testamento l’ho sempre rintracciata nel vangelo di
Marco nelle parole del padre del bambino epilettico che si rivolge a
Gesù in questi termini: «Credo, aiutami nella mia incredulità!» (9, 24).