C’è morte e morte. C’è qualcuno, anche famoso, di mondo e di
Chiesa, che è morto prima ancora di morire e ci sono altri che sono vivi
anche da morti, perché per loro parlano persone e libri, situazioni e
drammi, immagini e sentimenti. Tra quest’ultimi trova senz’altro posto
la figura di don Lorenzo Milani. A quarantasette anni dalla morte,
avvenuta a Firenze il 26 giugno 1967, la sua parola è più viva che mai.
Almeno a giudicare dall’enorme quantità di articoli, libri, dibattiti e
convegni, promossi per ricordarne la figura. Certo, fare memoria di don
Lorenzo, significa chiederci – senza sconti – se è rimasto ancora
qualcosa di un uomo che, da vivo come da morto, è segno di
contraddizione. D’altronde, qualunque sia il giudizio sulla vita e
sull’opera del prete fiorentino è impossibile rimanere neutrali. Bisogna
scegliere da che parte stare: occorre schierarsi.
UN PROFETA CHE INQUIETA
Tensione, rigore: sta qui, soprattutto, la “scomodità” di don Milani
che si avverte tutte le volte che si deve parlare o scrivere di lui. E’
scomodo perché è un personaggio che misura le nostre immaturità e i
nostri ritardi, i compromessi che, a poco a poco, abbiamo chiamato
mediazioni, gli opportunismi che abbiamo definito sempre più necessari e
opportuni. Leggendo le sue lettere, ci si rende conto che la sua
“scomodità” proviene da una dedizione radicale, consumata senza un
attimo di sosta fino alla morte. Così scrive in una lettera a don Ezio
Palombo: «Ponete in alto il cuore vostro e fate che sia come una
fiaccola che arde. Io penso che su questo punto non bisogna avere pietà,
di nessuno. La mira altissima, addirittura disumana (perfetti come il
Padre!) e la pietà, la mansuetudine, il compromesso paterni, la
tolleranza illuminata solo per chi è caduto e se ne rende conto e chiede
perdono e vuol riprovare da capo a porre la mira altissima..» Ed ancora: «Ecco
dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè
in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere
crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinceffargli ogni
giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua
incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e
dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti
quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e
attraenti solo per quelli che hanno Grazia Sufficiente da gustare altri
valori che non siano quelli del mondo».
UN UOMO DEL SUO TEMPO, CARICO DI PROFEZIA
Per capire qualche cosa dell’opera di
don Lorenzo Milani occorra partire subito dalle contraddizioni. Figlio
di madre ebrea, Alice Weiss, e poi prete cattolico; agnostico fino a
vent’anni e testimone dell’Assoluto per il resto della sua vita; colto,
coltissimo, eppure gli ultimi tredici anni della sua vita li ha passati
in un borgo di montagna nemmeno segnato sulla carta geografica e da
morto, su sue precise volontà, è stato messo nella cassa vestito con i
paramenti sacerdotali e gli scarponi di montagna.
Credo però che occorra andare oltre, perché don Lorenzo non è stato solo
un uomo di contraddizione ma anche un uomo carico di profezia.
Distinguere l’una dall’altra è importante per capire cosa oggi possa
rimanere e valere. E’ un lavoro di discernimento che evita ogni forma di
reducismo e ha il coraggio di indicare vie possibili di
emancipazione. Quando, il 27 maggio del 1923, Lorenzo nasce, si trova in
una famiglia con un padre, laureato in chimica, ricco possidente,
filosofo e poeta che sapeva parlare e scrivere in sei lingue, e una
madre, colta, amante di buone letture. Lorenzo è nipote di quel Domenico
Comparetti, illustre grecista, filologo, conoscitore di diciannove
lingue, i cui testi sono ancora oggi usati in alcune università
italiane. Come i figli dei ricchi del tempo, fino alle medie non
frequenta le scuole pubbliche ma studia a casa con professori pagati
dalla famiglia. Nel frattempo, per sfuggire alla crescente voglia di
razzismo che sinistramente iniziava a circolare in Europa, padre e
madre, benché non credenti, decidono di sposarsi in chiesa e di
battezzare i figli. La famiglia si trasferisce a Milano e Lorenzo
frequenta il Berchet, il liceo classico: è insofferente alla scuola e
dopo aver sostenuto gli esami per la maturità, promosso per un soffio,
si dà alla pittura, iscrivendosi all’Accademia delle Belle Arti di
Brera. La ricerca dell’essenziale, l’incontro con l’arte sacra, lo
avviano, con voracità, verso quella strada di ricerca dell’Assoluto che
lo segnerà per tutta la vita.
LA PAROLA È LA CHIAVE CHE APRE OGNI PORTA
Ordinato prete nel 1947 dal cardinal
Elia Dalla Costa viene mandato come cappellano a San Donato di
Calenzano, un paese a forte concentrazione operaia, a metà strada tra
Firenze e Prato. Subito si rende conto che la maggiore ingiustizia sta
nel non possedere la parola: «…ho iniziato il mio apostolato facendo
scuola perché come parroco ho l’incarico di predicare il Vangelo. I
miei parrocchiani non mi intendevano perché non erano capaci di un
discorso lungo e complesso, di una lingua sufficiente per ricevere le
spiegazioni del Vangelo. Allora ho fatto scuola per eliminare il
problema della lingua. Poi alla fine è successo che mi sono innamorato
di loro e mi è cominciato a stare a cuore tutto quello che sta a cuore a
loro e tutto quello che per loro è bene. E il loro bene è fatto di
tante cose: dall’impegno sociale e politico a quello religioso, fino
alla cura della loro salute…». La vicinanza e la condivisione con la gente del suo popolo gli permette di arrivare alla consapevolezza che: «la
povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura
dal grado di cultura e sulla funzione sociale… La parola è la chiave
fatata che apre ogni porta. Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». Da qui la scelta della scuola: «Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e religiosa». La
parola diventa per don Lorenzo non solo la possibilità di comprensione
ma anche luogo esemplare di dignità. Egli è convinto che la persona può
realmente essere “libera” soltanto se rompe la cappa della propria
ignoranza e della propria incapacità di far valere le proprie ragioni.
Anche dal punto di vista religioso. La scuola serale popolare di
Calenzano, aperta a giovani operai e contadini, dalle cui aule viene
tolto il crocefisso per permettere ai comunisti di entrarvi senza
problemi, è vista, da don Lorenzo, come possibilità per evangelizzare. «È tanto difficile che uno cerchi Dio – scriveva in “Esperienze pastorali”
– se non ha sete di conoscenza. Quando con la scuola avremo risvegliato
nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete
o passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un
giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che fa
vibrare noi. Tutto il problema si riduce qui, perchè non si può dare che
quello che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche
cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un
livello da uomo, cioè a dir poco un livello di parole e non di gioco. E
non una parola qualsiasi di conversazione banale, di quelle che non
impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Una
parola come riempitivo di tempo, ma parola scuola, parola che
arricchisce».
A BARBIANA
Nel 1954 viene trasferito a Barbiana,
sotto il monte Giovi, nel Mugello. Agli occhi di chi sale oggi, pare un
piccolo pezzo di paradiso, al di là dei confini del mondo. Barbiana non è
un paese: si vedono la chiesa, la canonica, più sotto il cimitero e
poco altro. La casa più vicina ad almeno mezzo chilometro, le altre
sparse per i monti. Al tempo di don Lorenzo, il posto stava per essere
abbandonato dalle ultime famiglie di montanari che sentivano
l’attrazione delle fabbriche poste a valle. La diocesi aveva già deciso
di lasciare incustodita la piccola chiesa di sant’Andrea: la riapre solo
per l’arrivo di don Lorenzo. Il giorno dopo il suo arrivo, apre subito
la scuola, stavolta destinata ai bambini. Anche lì, nella piccola stanza
-ancora oggi tappezzata di carte geografiche – senza riscaldamento, coi
ragazzi attorno al tavolo dodici ore al giorno a discutere sui
giornali, a confrontarsi con le questioni mondiali, a leggere insieme i
testi di Gandhi, l’apologia di Socrate, don Lorenzo vive il tentativo
profondo, vissuto nella carne, di dare la parola a coloro ai quali era
stata tolta o negata. Ancora una volta lo fa da prete, convinto che dare
ai poveri la capacità di usare la parola è rendere possibile il fatto
che possano davvero ascoltare la Parola e creare quindi le condizioni
per poter essere autenticamente uomini: «Se io prete mi interesso
della tua istruzione, non è per farti propaganda, ma perché ho la
certezza che allargando la tua mente a qualsiasi cosa bella, vera e
buona, farò cosa grata al tuo Dio che te l’ha data per questo». E un giorno esclamerà: «La scuola mi è sacra come l’ottavo sacramento».
Una scuola esigente, aperta 365 giorni l’anno (366 negli anni
bisestili), dalle otto del mattino alle sette e mezzo di sera, con una
piccola interruzione per mangiare, senza ricreazione e nessun gioco.
Solo lo sci d’inverno e d’estate i tuffi, in una piccola piscina
costruita dai ragazzi appena fuori la canonica, che oggi visitatori e
pellegrini possono vedere.
IL FINE ULTIMO È DEDICARSI AL PROSSIMO
«Cercasi un fine. Bisogna che sia
onesto. Grande. Io lo conosco. Il priore me l’ha insegnato da quando
avevo 11 anni e ne ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo
minuto per minuto perché studiavo. Il fine ultimo è dedicarsi al
prossimo. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte».
Così si esprimevano i ragazzi di Barbiana nella famosa “Lettera ad una
professoressa”. Il sapere ha senso nella misura in cui è condiviso. «Il sapere serve solo per darlo», ripeteva spesso don Milani. Contro le tentazioni dell’individualismo e perfino del sapere in sé. «Abbiamo
scoperto che amare il sapere può anche essere egoismo. Il priore ci
propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al
servizio del prossimo. Per esempio dedicarci all’insegnamento, alla
politica, al sindacato, all’apostolato o simili». Non a caso,
coloro che salivano a Barbiana trovavano, appeso al muro della stanza,
un cartello con la scritta I CARE, che era il motto, intraducibile, dei
giovani americani che si battevano nei campus universitari: «Mi sta a
cuore, mi interessa». Oggi il cartello c’è ancora. E’ sbiadito ma è
subito evidente nella stanza dove vi sono due grandi tavoli e una decina
di sedie impagliate. piena di libri, nella quale, ogni giorno, il
priore e i ragazzi più grandi facevano scuola.
SORTIRNE INSIEME È POLITICA
Sull’altra parete vi era invece scritto un breve componimento di un bambino cubano: «Yo escribo porque me gusta estudiar. El nino que no estudia non es buen revolucionario».
(Io studio perché mi piace studiare. Il ragazzo che non studia non è un
buon rivoluzionario). La passione civile, l’impegno politico, l’amore
per le cose serie della vita, lo schierarsi sempre, a qualsiasi costo,
contro l’ingiustizia sono lo “statuto” della scuola di Barbiana. «Non
vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani
che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale».
Perché se è vero che la scuola deve provocare e farsi provocare dalla
vita e dalla storia è vero pure che essa non può rimanere indifferente o
neutrale. Anche perché la neutralità coincide quasi sempre con la
conservazione delle logiche dominanti. «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Una scuola quindi tesa alla formazione di una coscienza critica (due
ore al giorno, a Barbiana, erano spese nella lettura dei giornali),
capace di mettere in discussione idee secolari, disponibile (si pensi
alla lettera ai giudici!) a ricostruire una memoria storica diversa da
quella proposta e consacrata nei tempi. Una scuola che non occulti il
conflitto ma, mostrandolo, dia le condizioni per una possibile gestione e
un suo superamento. Tutto ciò in modo nonviolento, con un’arma nobile e
rivoluzionaria: la parola. E’ qui che nasce la celebre risposta ai
cappellani militari di Toscana che avevano definitivo “vili” gli
obiettori di coscienza; è qui che matura la riflessione sulla scuola
italiana che separa, ancora di più, i Gianni e i Sandri, figli di
contadini e operai, dai Pierini, figli di medici e laureati.
IL MAESTRO
«Spesso gli amici mi chiedono come
faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io
scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la
tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di
come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare
scuola». In questa frase vi è, in sintesi, tutto il senso
dell’impegno di don Milani. Molti hanno messo in discussione il presunto
autoritarismo della scuola di Barbiana, tutta giocata sulla verità e
sull’assolutezza del maestro. Don Milani non ha mai negato ciò ma ha
sempre ribadito che la sostanza del rapporto gli interessa più dei modi
per gestirlo. «Disciplina e scenate da far perdere la voglia di
tornare.. Però chi era senza basi, lento o svogliato, si sentiva il
preferito. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui”. Ancora: «Abbiamo
visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche
volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la
scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i
malati». E’ quello che non capisce la professoressa, destinataria della famosa Lettera, alla quale i ragazzi ricordano che «non vi è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali».
NELLA PASSIONE DI DIO VIVE QUELLA DELL’UOMO
«Severamente ortodosso e
disciplinato, nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno
di aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime…io sono
parte viva della chiesa, anzi suo ministro…”. Credo che non si
possa capire fino in fondo l’esperienza di don Milani se la si estrania
dal contesto e dalla scelta sacerdotale. Se c’è qualcosa di eccezionale
in lui sta proprio nel criterio di chiarezza e di semplicità con cui, di
volta in volta, egli ha collegato le sue decisioni più coraggiose alla
sua qualità di sacerdote cattolico. Prete – e prete fino in fondo – don
Milani si è sempre mosso con la coscienza che è dalla Parola che nasce
il giudizio sul mondo e sulle cose. Con essa, guarda il povero
“concreto”, quello dei “trecento metri” come diceva lui («Perché se
offrissi anche un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si
sente parlare sui libri d’ascetica, smetterei d’essere parte vivente di
un popolo di montanari: e questo privilegio non lo cederei per tutto
l’oro del mondo…»), e si rende conto che lo scarto tra la realtà e
il sogno di Dio raccontato dalla Parola è troppo grande. Da buon
israelita vede il mondo come “altro” dal piccolo resto che guida e da
buon profeta non può non alzare la voce. Sempre e in ogni caso, perché
nessun progetto politico potrà esaurire fino in fondo il desiderio di
giustizia che un credente porta con sè. Dirà a Pipetta, il giovane
comunista: «Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di
qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia del
ricco, ricordatene, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel
giorno io non resterò con te. Io tornerò nella tua casupola piovosa e
puzzolente a pregare per te davanti al Signore crocefisso.. Quel giorno
finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote
di Cristo: beati i..fame e sete». Quando salgo a Barbiana me lo
ripete, ogni volta, Maresco Ballini, un “ragazzo” di San Donato poi
sindacalista, oggi animatore instancabile del “Gruppo don Milani”:
«Quello che molti ancora non capiscono è che il suo obiettivo primario
era l’evangelizzazione. Diceva spesso: “Dio non mi chiederà conto del
numero dei salvati del mio popolo ma del numero degli evangelizzati”.
L’opera educatrice che don Lorenzo compiva pazientemente su ciascuno era
quella di predisporre i non credenti a non rifiutare la fede che Dio
offre ad ogni uomo e impegnare i credenti ad essere più coerenti e a
stare in grazia di Dio. Non a caso i lunghi colloqui personali che si
svolgevano frequentemente, quasi sempre per iniziativa di don Lorenzo,
si concludevano con la confessione. Il resto, le necessità umane,
compresa quella della istruzione, erano secondarie anche se da lui
vissute con la cura e l’apprensione di padre».
Un credente, dunque, che è stato, anzitutto, uomo e sacerdote, maestro e
profeta, pronto con la Parola ricevuta a giudicare il mondo, convinto
che nella passione di Dio viva quella per l’uomo. Scriverà infatti nel
testamento: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che
non ho debiti con voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho
voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento
a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto. Un altro
abbraccio, vostro Lorenzo».