«Il nemico oggi non ci assale alle spalle, ma ci accarezza la
pancia; non ci toglie la libertà con la prigione, ma ci riduce alla
schiavitù del potere; non ci confisca i beni, ma ci arricchisce
portandoci ad avere troppi beni; non taglia la testa, ma uccide l’anima
con il denaro; non colpisce i fianchi, ma vuole il possesso del nostro
cuore». A scrivere queste righe è Ilario di Poitiers,
vescovo, dottore della Chiesa, vissuto nel IV secolo. Parole dure,
rivolte a quanti, già allora, erano tentati di fare delle ricchezze del
mondo il tesoro su cui investire la vita. Parole che paiono non lontane
da quelle pronunciate da papa Benedetto subito dopo i dissesti delle
Borse di tutto il mondo e i crack finanziari di colossi bancari: «Il
crollo delle banche dimostra che i soldi scompaiono, sono niente. Deve
ricordarlo chi costruisce la propria vita solo su carriera e successo.
La parola di Dio è la sola realtà solida». Parole di antica ed
evangelica sapienza, da ricordare a tutti, anche a coloro che gestiscono
soldi e finanze di diocesi e parrocchie, istituti e comunità religiose.
Gli ha fatto eco papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, al numero 55:
«Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che
abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo
predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che
attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda
crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo
creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es
32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del
denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo
veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia
manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un
orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei
suoi bisogni: il consumo».
In realtà, la crisi dei mercati finanziari – che ha avviato nel 2008
la crisi nella quale ancora faticosamente galleggiamo – ha messo sotto
gli occhi di tutti qualcosa che aleggiava da tempo ma che non si voleva
riconoscere: la fragilità di un sistema economico che,
uscito vincitore dopo la caduta del Muro di Berlino, si è dimostrato
incapace di garantire, non solo ai garantiti di sempre, dignità e
sicurezza. Neanche del proprio conto in banca. Al punto che quanti si
sono inchinati all’idolatria del mercato, di cui decantavano efficienza,
flessibilità e capacità innovativa, li abbiamo sentiti poi invocare,
senza vergogna alcuna, l’intervento dell’autorità pubblica e un nuovo
sistema di regole.
ECONOMIA A ETICA ZERO. MA LE PREDICHE NON BASTANO
Ciò che è avvenuto ha reso evidente un fatto: nel mondo di oggi
l’economia appare dominata, a volte pare quasi esclusivamente, dalla
logica della massimizzazione del profitto e da società finanziarie che
muovono denaro senza difficoltà, senza limiti al di là delle frontiere
dello stato nazionale, girando il pianeta a seconda della convenienza
economica e che non rendono conto a nessuno. Siamo dunque dinanzi ad un
processo di globalizzazione “a etica zero”.
All’economia (e alla finanza) si riserva il posto di comando, in nome di
un “realismo” e di un “pragmatismo” derivati dalla convinzione che il
capitalismo non abbia alternative, essendo lo stato naturale della
società. Il sistema economico dovrebbe pertanto sbarazzarsi di ogni
vincolo sociale perché l’economia è sovrana e qualsiasi riferimento a
regole extraeconomiche apparirebbe come un regresso. Ma dove ci sta
portando questa razionalità economica del tutto sganciata da una
razionalità etica? Qual è la capacità della politica di governare e non
subire questi processi? “L’epoca planetaria è già iniziata da un pezzo”,
ripete spesso Edgard Morin, «ma la conoscenza dell’uomo è ancora
all’età del ferro dell’era planetaria». Forse il vero dramma sta proprio
qui: l’economia si è globalizzata; la comunicazione si è globalizzata;
ma non si sono ancora globalizzate né la politica, né l’etica, né
l’educazione.
QUALE MODELLO DI SVILUPPO?
Un’ultima questione. La crisi infinita deve lasciare aperta la questione sul modello di sviluppo che abbiamo acriticamente assunto.
Sono sotto gli occhi di tutti – e ampiamente ricordati – i pericoli che
minacciano il futuro del nostro pianeta, l’aggravarsi, acuto, delle
ineguaglianze tra i popoli, derivati dall’idolatria del denaro.
Nessuno sogna un mondo dove scompaiano il denaro, il consumo e il commercio.
Però qualche domanda, da uomini appassionati di bene comune, la
dobbiamo porre ad alta voce. Come è possibile che abbiamo confuso
crescita economica con sviluppo? Perché abbiamo taciuto di fronte ad un sistema che produce la cultura dello scarto? «Che
alcune persone senza tetto muoiano di freddo per la strada non fa
notizia. Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di
alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia,
ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le
persone vengono scartate, come se fossero rifiuti». (Papa Francesco).
Perché non siamo andati oltre la denuncia (e anche un certo moralismo) e
studiato, con rigore e competenza, forme possibili e praticabili per
uno “sviluppo sostenibile”? Che non rappresenta tanto un’utopia,
l’obiettivo ultimo da perseguire, quanto un realistico criterio/modello
con cui affrontare passo dopo passo la sfida dell’incognito futuro.
È chiaro che, anche in questo caso, non bastano prediche ne appelli
generici ai valori. Come acutamente nota Campanini, «è arrivato il
momento per cominciare ad applicare, attraverso scelte politiche, quelle
idee – non irenistiche o idealistiche, ma al contrario, realistiche –
coltivate in tanti ambienti sociali, intellettuali, ecclesiali anche
grazie alle analisi di tanti economisti. Non è necessario accapigliarsi
sulla “decrescita” (termine che alla fine, al di là delle buone
intenzioni, rischia di creare incomprensioni). Ma ragionare invece su
“quale crescita” è ormai ineludibile.”