Alla fine del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, assistiamo ad una duplice reazione da parte dei discepoli: le parole di Gesù sono per gli uni causa di scandalo e di defezione, e per altri, al contrario, motivo di nuova adesione al Signore, occasione di una rinnovata scelta nella sequela del Maestro.
Sia gli uni che gli altri sono discepoli: ad andarsene non sono quindi persone capitate lì per caso, non è la folla, non si tratta di gente che lo ascoltava saltuariamente. Sono gli stessi discepoli, coloro che lo seguivano, attratti dalle sue parole e dai suoi gesti.
Abbiamo quindi due quadri contrapposti, segnati, ciascuno, da alcune parole chiave.
Il primo quadro (Gv 6, 59-66) termina con un’amara espressione dell’evangelista sull’abbandono dei discepoli: “Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6 66).
Di questa frase, cogliamo tre elementi, tutti e tre antitetici all’esperienza della sequela.
Il primo è nell’espressione: “da quel momento”, “da questo, a causa di ciò”: e dice che, nella vita di questi discepoli, quel momento è uno spartiacque e devono prendere una decisione. Vi è una nuova e importante rivelazione, che però essi non sono stati capaci di integrare e accogliere. Questa rivelazione che Gesù ha fatto di sé come cibo che nutre di vita eterna, invece di consolidare il cammino di sequela, lo ha bloccato.
Essi lo hanno giudicato troppo “duro” (Gv 6,60), e si sono fermati prima di accoglierlo. E questo ci fa dire che il cammino del discepolo non è mai garantito una volta per sempre, anzi: alla decisione iniziale di seguire il maestro deve corrispondere la capacità di accogliere lo svelarsi di Dio nella storia, uno svelarsi che non è mai scontato e che chiede di lasciarsi trasformare il cuore. Solo a questa condizione le sue parole non sono uno scandalo.
Il secondo è che i discepoli “tornarono indietro”: un’espressione capace di dire tutto lo scoraggiamento, la delusione, il fallimento. Questa stessa espressione la troveremo più avanti, nel vangelo di Giovanni, al capitolo 20, quando Pietro e Giovanni, dopo aver visto il sepolcro vuoto, tornarono indietro, perché non avevano ancora compreso la Scrittura (Gv 20, 9-10). Ed è la stessa esperienza dei discepoli di Emmaus, o del giovane ricco: tutte persone chiamate a fare un passaggio, ad accogliere una rivelazione, a prendere una direzione.
L’espressione utilizzata da Giovanni: “indietro”, è la stessa espressione che gli evangelisti utilizzano per dire la sequela, per dire l’andare dietro a Gesù. Ma qui questa stessa espressione smette di essere sequela di Gesùper indicare semplicemente il tornare indietro, l’andar dietro alle cose di prima, le cose che formavano la vita dei discepoli prima di “quel momento”.
I discepoli hanno perso un’occasione, e non un’occasione qualsiasi: se quel pane, che Gesù offre, è per la vita, allora il loro tornare indietro conduce alla morte.
Il terzo elemento è ancora più drammatico, perché dice che “non andavano più con lui”. Se tutte le parole di Gesù erano tese a portare i discepoli all’esperienza dell’intimità con lui, proprio come lui è in intimità con il Padre (Gv 6,56-57), queste parole dicono di una vita che smette di essere ciò che è chiamata ad essere, una vita che perde tutto il suo senso, la sua bellezza, la sua inaudita possibilità.
Opposto a questo drammatico quadro, c’è quello che riguarda i Dodici (Gv 6,67-69), anch’essi chiamati ad una scelta, come gli altri discepoli.
A nome di tutti, è Pietro a dire il loro orientamento.
L’espressione usata da Pietro (“da chi andremo?”), è identica a quella usata prima per indicare la defezione degli altri discepoli: per dire che anche per loro le parole sono state dure, anche per loro c’è uno scandalo da affrontare e un ostacolo da superare. Ma se i primi scelgono di affrontarlo voltando le spalle al Signore, loro, al contrario, lo affrontano andando verso di Lui. Questa è la grande differenza, ed è lì che la fede cresce e matura: solo così le parole di Gesù diventano parole per la vita.
A questa comprensione, i Dodici sono giunti attraverso il cammino indicato da due verbi: abbiamo creduto e conosciuto. Cioè ci siamo lasciati attrarre (Gv 6,43.65), ci siamo fidati e abbiamo fatto esperienza che questo fidarsi porta alla vita.
Gesù qui si rivela come colui che è ugualmente a casa in cielo e sulla terra (E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? – 62). Lui è un cittadino di entrambi. È il Verbo fatto carne e questa carne, e questo sangue, sono veicoli della vita interiore del Verbo. La carne da sola non giova a nulla, come dice il versetto 63. Ma quando la carne è abitata dalla vita di Dio, della Parola che è Dio, ha senso parlarne nel modo in cui Gesù ha appena fatto. Gesù invita i suoi ad andare oltre alla comprensione materiale di ciò che ha rivelato, ma di accogliere la sua rivelazione secondo lo Spirito.
All’inizio del capitolo, subito dopo il racconto della moltiplicazione dei pani e prima del lungo dialogo sul pane di vita, c’è un episodio che la Liturgia domenicale omette, ma che forse è la chiave di lettura di tutto il brano. È l’episodio della traversata del lago di Tiberiade in tempesta (Gv 6, 16-21).
Il cammino per arrivare a credere e conoscere assomiglia in effetti ad una traversata burrascosa, ad un’esperienza in cui si tocca da vicino la morte, e in cui si deve ammettere la propria incapacità a raggiungere, da soli, l’altra riva.
Lì il Signore ci raggiunge, in un modo che noi non ci aspettiamo e che dice la sua sovranità sul male e sulla morte; e se noi non ci lasciamo vincere dalla paura o dallo scoraggiamento, allora la nostra vita ritrova il suo senso e la sua pienezza.
Potremmo dire che discepoli che hanno abbandonato la sequela del Signore non hanno raggiunto l’altra riva, non hanno compiuto la loro traversata.
I Dodici sì, non per loro merito, ma per aver continuato ad ascoltare questa parola che diceva: “Sono io, non abbiate paura” (Gv 6,20).