Dopo aver meditato, per cinque domeniche
consecutive, il discorso di Gesù sul pane di vita, riprendiamo la
lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino alla fine
dell’anno liturgico.
Nel brano di oggi viene sollevata una questione che tocca un elemento centrale della religione giudaica: le purificazioni.
Agli antichi il mondo appariva diviso in due sfere contrapposte, una pura nella quale operavano le forze della vita, e l’altra impura dove erano presenti i germi della morte.
Gli israeliti consideravano impuro tutto
ciò che, in qualunque modo, fosse venuto in contatto con gli idoli
inanimati, incapaci di favorire la vita che è monopolio del “Dio vivo e
vero” (1 Ts 1,9). La loro istintiva ripulsa per il mondo idolatrico si
manifestava in forme esasperate di separazione. Quando, ad esempio,
entravano in possesso di una terra straniera, per cinque anni non
mangiavano i frutti dei campi, attendevano fino a quando ogni traccia di
impurità fosse sicuramente scomparsa (Lv 19,23).
Immondi erano i pagani chiamati “cani” e
tale epiteto compare addirittura sulla bocca di Gesù (Mc 7,27). Popolo
di santi era Israele (Dt 7,6) e santo era soprattutto il tempio in cui
il Signore aveva preso dimora.
Ogni contatto con i pagani o con gli
oggetti da loro toccati era fonte di impurità e richiedeva rigorose
purificazioni. Al riguardo, le disposizioni dei rabbini erano molto
minuziose, non trascuravano alcun dettaglio, specificavano qual era il
grado di impurità e quale specifica abluzione andava fatta,
distinguevano i diversi tipi di acqua da impiegare, spiegavano come
dovevano essere spruzzati gli oggetti acquistati al mercato prima di
usarli. L’ignoranza di queste norme era imperdonabile ed era fonte di
maledizione (Gv 7,49). Ogni trasgressione era ritenuta un’infedeltà a
Dio e alle sacre tradizioni.
Nella prima parte del brano (vv.
1-8) è riferita un’accesa disputa fra Gesù e alcuni farisei e scribi
venuti da Gerusalemme. La colpa che gli rinfacciano è che i suoi
discepoli non rispettano la distinzione fra sacro e profano: “Prendono
cibo con mani immonde” (v. 2) e questo comportamento disinvolto e
provocatorio non possono che averlo appreso dal loro maestro.
L’accusa non riguarda la trascuratezza
delle norme igieniche, ma il mancato adempimento del gesto rituale che
deve essere compiuto, dopo che si è fatto il bagno, da chiunque voglia
mantenere le distanze dai pagani che sono rifiutati da Dio.
Da dove derivavano queste rigide
disposizioni e questa osservanza ossessiva? Dalla “tradizione degli
antichi”, da quegli insegnamenti dei rabbini ai quali si attribuiva lo
stesso valore della parola di Dio contenuta nelle sacre Scritture.
La Bibbia prescrive che, prima di
mangiare le carni dei sacrifici del tempio, il sacerdote si lavi le mani
e i piedi (Es 30,17-21), ma alcuni gruppi di laici, particolarmente
devoti, avevano adottato anche nelle proprie case le consuetudini dei
banchetti sacri dei sacerdoti e, pian piano, questa pratica si era
diffusa tra il popolo, dando origine alla convinzione che il precetto
fosse stato dettato dal Signore. La formula che si era soliti recitare
era la seguente: “Benedetto sei tu, Signore Dio nostro re del mondo, che
ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato il lavaggio
delle mani”.
Le guide spirituali avevano benedetto
questa tradizione, assimilandola alla legge di Dio, a quella legge che –
come abbiamo rilevato nella prima lettura (Dt 4,2) – non doveva in
alcun modo essere alterata, non doveva subire né tagli né aggiunte.
Se queste norme fossero state inquadrate
nella prospettiva giusta, non avrebbero costituito un fattore
particolarmente negativo: erano semplicemente l’espressione di un
bisogno, studiato a fondo dalla moderna scienza psicologica, di
ricorrere a certe pratiche per esorcizzare le fobie suscitate dal
diverso, da ciò che è ritenuto una minaccia per la propria identità.
Divennero pericolose perché furono equiparate alla parola di Dio,
provocando un travisamento del volto del Signore e del rapporto con
lui. Le conseguenze furono le stesse che possiamo verificare anche oggi,
quando questa equiparazione, spesso inconsciamente, viene reintrodotta.
Vediamole.
La prima, molto grave, è quella di attribuire a Dio la distinzione fra uomini puri e impuri,
fra giusti e peccatori. Questa discriminazione e le relative norme di
evitazione portano all’isolazionismo, scatenano intolleranze e mettono
in atto dinamismi perversi di aggressione. Non sono volute da Dio, per
il quale tutti gli uomini sono puri (At 10) e non esistono differenze di
razza, sesso e condizione sociale (Gal 3,28). Anche la separazione fra
creature monde e immonde, fra luoghi sacri e profani non è voluta dal
Signore, ma dagli uomini. Egli “ama tutte le cose esistenti e nulla
disprezza di quanto ha creato” (Sap 11,24).
“Nel giudizio di Dio – insegnavano i
rabbini – l’uomo dovrà rendere conto di tutto ciò in cui il suo occhio
ha trovato piacere e di cui tuttavia egli non ha goduto”. In queste loro
parole è riflessa la mentalità serena dell’uomo biblico che gioisce
delle bellezze del creato e ringrazia Dio per il cibo, il vino, la
salute, la bellezza, la sessualità e per tutti i doni che ha ricevuto
dal Signore (Dt 8,10).
L’equiparazione della “tradizione degli antichi” alla volontà di Dio comporta un secondo, grave inconveniente: l’assolutizzazione delle pratiche rituali.
Chi le ritiene stabilite dal Signore, le adempie scrupolosamente e
finisce per autoconvincersi di essere a posto con Dio e con i fratelli.
I più saggi fra i rabbini avevano
intuito questo pericolo, avevano denunciato l’insufficienza di queste
pratiche e avevano richiamato alla conversione del cuore. I monaci di
Qumran, che pure facevano abbondante uso delle purificazioni rituali,
insegnavano: “Non ci si può santificare in laghi e fiumi né purificarsi
con un qualsiasi lavaggio d’acqua. Impuri si rimane finché vengono
disprezzati i comandamenti di Dio”.
Gesù si inserisce nella linea spirituale
dei profeti e dei maestri pii del suo tempo; punta sul rinnovamento
della vita e prende una posizione severa contro la religione ridotta
all’osservanza di un codice giuridico. Afferma che a Dio non interessano
la purezza esteriore, i formalismi, le solenni liturgie del tempio, le
apparenze. Come i profeti (Am 5,21-27; Is 1,11-20; 58,1-14) condanna
senza riserve questa “farsa religiosa” e, citando Isaia, dichiara:
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di
uomini” (vv. 6-7).
L’evangelista Matteo riferisce un’altra
parola profetica, alla quale pare che Gesù fosse solito ricorrere per
risolvere le diatribe con i fautori del culto delle tradizioni: “Andate e
imparate che cosa significhi: Opere d’amore io voglio, non sacrifici!”
(Mt 9,13; 12,7).
Nel brano di oggi, coloro che divinizzano queste tradizioni sono qualificati come ipocriti,
cioè, attori, commedianti che si coprono il volto con la maschera della
religiosità, della devozione, della docilità, che si atteggiano a
persone pie, ma, trascurando l’unico culto gradito a Dio, l’amore verso
il fratello, onorano il Signore solo a parole e con le labbra, non col
cuore (Dt 6,5).
Gli evangelisti non ci avrebbero
conservato queste parole dure del Maestro se non avessero intuito la
perenne attualità del rischio di introdurre nella chiesa questo culto ipocrita e del pericolo di porre sullo stesso piano la legge di Dio e le tradizioni degli uomini.
L’osservanza rigorosa di norme chiare e
ben definite dà la sensazione di aver fatto il proprio dovere, fa
sentire sicuri di fronte al Signore, induce addirittura a ritenere di
essere in credito con lui.
Costruire la propria vita nella libertà
dei figli di Dio, essere continuamente disponibili al fratello è più
difficile. Le esigenze dell’uomo cambiano e chi ama deve chiedersi, in
ogni momento, cosa è chiamato a fare, cosa gli è richiesto, cosa il
fratello si attende da lui. L’amore non è dettato da norme, ma è
inventato momento per momento, richiede fantasia, attenzione,
disponibilità totale e incondizionata.
La religione del cuore può essere
praticata solo da chi ha raggiunto una fede adulta e matura, da chi è
libero, sincero, aperto alla luce di Dio ed agli impulsi dello Spirito. I
“neonati in Cristo” (1 Cor 3,1) temono il rischio, preferiscono
ricevere disposizioni precise e minuziose, anche se, nel loro intimo, si
rendono conto che questa religione non è liberante, non comunica gioia e
serenità interiore, ma solo tensioni e ansie.
Nella seconda parte del brano (vv.
14-23) Gesù stabilisce il criterio che permette di discernere fra le
azioni pure e impure. Quelle che contaminano l’uomo non vengono
dall’esterno, ma dall’interno, dal cuore.
L’elenco di dodici vizi (sei al
plurale e sei al singolare) che rendono impuri indica quali sono i
punti su cui, chi si ritiene religioso si deve esaminare. Ciò che
discrimina fra azioni buone e azioni malvagie non è la conformità o
difformità da una norma, ma il fatto di essere in favore o contro
l’uomo. E ciò che è affermato per i cibi vale per tutti gli altri
precetti derivati dalle “tradizioni degli antichi”.
Al centro della gradinata che, dal lato
meridionale, introduceva nel tempio di Gerusalemme, erano collocate
numerose vasche adibite alle purificazioni dei sacerdoti e dei
pellegrini che salivano per offrire sacrifici. A chi è divenuto
cristiano, queste vasche non servono più perché, ai suoi discepoli, Gesù
chiede solo la purità di cuore. Alla domanda: “Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?”, egli, con il salmista, risponderebbe: Chi ha mani innocenti e cuore puro
(Sl 24,1-2) e aggiungerebbe: “Se dunque presenti la tua offerta
sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di
te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti
con il tuo fratello. Poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24).
Solo chi è in pace con il fratello è puro e può accostarsi a Dio.