Gruppi volontari

In tutti i nostri paesi esistono diversi gruppi, costituiti formalmente oppure spontanei, che in diverse occasioni dell’anno promuovono, organizzano e animano incontri, feste, tornei, gite, corsi di formazione, spettacoli, teatri, serate a tema, sagre, eventi sportivi, culturali, artistici, musicali, ecc.

Molte persone offrono il loro impegno a pi gruppi e donano buona parte del loro tempo libero al servizio degli altri senza nessun fine di lucro, solo perché credono al valore di ciò che fanno. I nostri paesi devono moltissimo a questa numerosa schiera di volontari che, chi più in vista, chi più nel nascondimento, impiegano tempo, forze, risorse ed energie per creare occasioni di aggregazione sana, vivace, bella e arricchente, preziose sia per i residenti che per i turisti.

Alcune di queste attività hanno anche un risvolto sociale, perché ci si mette al servizio degli altri in un’ottica educativa o di aiuto e sostegno alle persone: si pensi ad alcune proposte rivolte ai bambini, ai ragazzi, ai giovani, alle famiglie; a chi ha bisogno di ascolto, accoglienza, attenzione, integrazione; alle persone sole, anziane o fragili.

Alcuni di questi volontari operano direttamente all’interno delle proposte parrocchiali e il loro servizio è accennato nelle varie sezioni di questo sito. A tutti va il nostro apprezzamento e la nostra gratitudine.

Avvisi

La Parola è la mia casa: Religione delle labbra e del cuore (XXII dom TO anno B)

La Parola è la mia casa: Religione delle labbra e del cuore (XXII dom TO anno B)

I testi della liturgia del 29 agosto da www.chiesacattolica.it

Il commento alle letture
(da www.settimananews.it)

Religione delle labbra e del cuore

di p. Fernando Armellini

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Dopo aver meditato, per cinque domeniche consecutive, il discorso di Gesù sul pane di vita, riprendiamo la lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino alla fine dell’anno liturgico.

Nel brano di oggi viene sollevata una questione che tocca un elemento centrale della religione giudaica: le purificazioni.

Agli antichi il mondo appariva diviso in due sfere contrapposte, una pura nella quale operavano le forze della vita, e l’altra impura dove erano presenti i germi della morte.

Gli israeliti consideravano impuro tutto ciò che, in qualunque modo, fosse venuto in contatto con gli idoli inanimati, incapaci di favorire la vita che è monopolio del “Dio vivo e vero” (1 Ts 1,9). La loro istintiva ripulsa per il mondo idolatrico si manifestava in forme esasperate di separazione. Quando, ad esempio, entravano in possesso di una terra straniera, per cinque anni non mangiavano i frutti dei campi, attendevano fino a quando ogni traccia di impurità fosse sicuramente scomparsa (Lv 19,23).

Immondi erano i pagani chiamati “cani” e tale epiteto compare addirittura sulla bocca di Gesù (Mc 7,27). Popolo di santi era Israele (Dt 7,6) e santo era soprattutto il tempio in cui il Signore aveva preso dimora.

Ogni contatto con i pagani o con gli oggetti da loro toccati era fonte di impurità e richiedeva rigorose purificazioni. Al riguardo, le disposizioni dei rabbini erano molto minuziose, non trascuravano alcun dettaglio, specificavano qual era il grado di impurità e quale specifica abluzione andava fatta, distinguevano i diversi tipi di acqua da impiegare, spiegavano come dovevano essere spruzzati gli oggetti acquistati al mercato prima di usarli. L’ignoranza di queste norme era imperdonabile ed era fonte di maledizione (Gv 7,49). Ogni trasgressione era ritenuta un’infedeltà a Dio e alle sacre tradizioni.

Nella prima parte del brano (vv. 1-8) è riferita un’accesa disputa fra Gesù e alcuni farisei e scribi venuti da Gerusalemme. La colpa che gli rinfacciano è che i suoi discepoli non rispettano la distinzione fra sacro e profano: “Prendono cibo con mani immonde” (v. 2) e questo comportamento disinvolto e provocatorio non possono che averlo appreso dal loro maestro.

L’accusa non riguarda la trascuratezza delle norme igieniche, ma il mancato adempimento del gesto rituale che deve essere compiuto, dopo che si è fatto il bagno, da chiunque voglia mantenere le distanze dai pagani che sono rifiutati da Dio.

Da dove derivavano queste rigide disposizioni e questa osservanza ossessiva? Dalla “tradizione degli antichi”, da quegli insegnamenti dei rabbini ai quali si attribuiva lo stesso valore della parola di Dio contenuta nelle sacre Scritture.

La Bibbia prescrive che, prima di mangiare le carni dei sacrifici del tempio, il sacerdote si lavi le mani e i piedi (Es 30,17-21), ma alcuni gruppi di laici, particolarmente devoti, avevano adottato anche nelle proprie case le consuetudini dei banchetti sacri dei sacerdoti e, pian piano, questa pratica si era diffusa tra il popolo, dando origine alla convinzione che il precetto fosse stato dettato dal Signore. La formula che si era soliti recitare era la seguente: “Benedetto sei tu, Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato il lavaggio delle mani”.

Le guide spirituali avevano benedetto questa tradizione, assimilandola alla legge di Dio, a quella legge che – come abbiamo rilevato nella prima lettura (Dt 4,2) – non doveva in alcun modo essere alterata, non doveva subire né tagli né aggiunte.

Se queste norme fossero state inquadrate nella prospettiva giusta, non avrebbero costituito un fattore particolarmente negativo: erano semplicemente l’espressione di un bisogno, studiato a fondo dalla moderna scienza psicologica, di ricorrere a certe pratiche per esorcizzare le fobie suscitate dal diverso, da ciò che è ritenuto una minaccia per la propria identità. Divennero pericolose perché furono equiparate alla parola di Dio, provocando un travisamento del volto del Signore e del rapporto con lui. Le conseguenze furono le stesse che possiamo verificare anche oggi, quando questa equiparazione, spesso inconsciamente, viene reintrodotta. Vediamole.

La prima, molto grave, è quella di attribuire a Dio la distinzione fra uomini puri e impuri, fra giusti e peccatori. Questa discriminazione e le relative norme di evitazione portano all’isolazionismo, scatenano intolleranze e mettono in atto dinamismi perversi di aggressione. Non sono volute da Dio, per il quale tutti gli uomini sono puri (At 10) e non esistono differenze di razza, sesso e condizione sociale (Gal 3,28). Anche la separazione fra creature monde e immonde, fra luoghi sacri e profani non è voluta dal Signore, ma dagli uomini. Egli “ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato” (Sap 11,24).

“Nel giudizio di Dio – insegnavano i rabbini – l’uomo dovrà rendere conto di tutto ciò in cui il suo occhio ha trovato piacere e di cui tuttavia egli non ha goduto”. In queste loro parole è riflessa la mentalità serena dell’uomo biblico che gioisce delle bellezze del creato e ringrazia Dio per il cibo, il vino, la salute, la bellezza, la sessualità e per tutti i doni che ha ricevuto dal Signore (Dt 8,10).

L’equiparazione della “tradizione degli antichi” alla volontà di Dio comporta un secondo, grave inconveniente: l’assolutizzazione delle pratiche rituali. Chi le ritiene stabilite dal Signore, le adempie scrupolosamente e finisce per autoconvincersi di essere a posto con Dio e con i fratelli.

I più saggi fra i rabbini avevano intuito questo pericolo, avevano denunciato l’insufficienza di queste pratiche e avevano richiamato alla conversione del cuore. I monaci di Qumran, che pure facevano abbondante uso delle purificazioni rituali, insegnavano: “Non ci si può santificare in laghi e fiumi né purificarsi con un qualsiasi lavaggio d’acqua. Impuri si rimane finché vengono disprezzati i comandamenti di Dio”.

Gesù si inserisce nella linea spirituale dei profeti e dei maestri pii del suo tempo; punta sul rinnovamento della vita e prende una posizione severa contro la religione ridotta all’osservanza di un codice giuridico. Afferma che a Dio non interessano la purezza esteriore, i formalismi, le solenni liturgie del tempio, le apparenze. Come i profeti (Am 5,21-27; Is 1,11-20; 58,1-14) condanna senza riserve questa “farsa religiosa” e, citando Isaia, dichiara: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (vv. 6-7).

L’evangelista Matteo riferisce un’altra parola profetica, alla quale pare che Gesù fosse solito ricorrere per risolvere le diatribe con i fautori del culto delle tradizioni: “Andate e imparate che cosa significhi: Opere d’amore io voglio, non sacrifici!” (Mt 9,13; 12,7).

Nel brano di oggi, coloro che divinizzano queste tradizioni sono qualificati come ipocriti, cioè, attori, commedianti che si coprono il volto con la maschera della religiosità, della devozione, della docilità, che si atteggiano a persone pie, ma, trascurando l’unico culto gradito a Dio, l’amore verso il fratello, onorano il Signore solo a parole e con le labbra, non col cuore (Dt 6,5).

Gli evangelisti non ci avrebbero conservato queste parole dure del Maestro se non avessero intuito la perenne attualità del rischio di introdurre nella chiesa questo culto ipocrita e del pericolo di porre sullo stesso piano la legge di Dio e le tradizioni degli uomini.

L’osservanza rigorosa di norme chiare e ben definite dà la sensazione di aver fatto il proprio dovere, fa sentire sicuri di fronte al Signore, induce addirittura a ritenere di essere in credito con lui.

Costruire la propria vita nella libertà dei figli di Dio, essere continuamente disponibili al fratello è più difficile. Le esigenze dell’uomo cambiano e chi ama deve chiedersi, in ogni momento, cosa è chiamato a fare, cosa gli è richiesto, cosa il fratello si attende da lui. L’amore non è dettato da norme, ma è inventato momento per momento, richiede fantasia, attenzione, disponibilità totale e incondizionata.

La religione del cuore può essere praticata solo da chi ha raggiunto una fede adulta e matura, da chi è libero, sincero, aperto alla luce di Dio ed agli impulsi dello Spirito. I “neonati in Cristo” (1 Cor 3,1) temono il rischio, preferiscono ricevere disposizioni precise e minuziose, anche se, nel loro intimo, si rendono conto che questa religione non è liberante, non comunica gioia e serenità interiore, ma solo tensioni e ansie.

Nella seconda parte del brano (vv. 14-23) Gesù stabilisce il criterio che permette di discernere fra le azioni pure e impure. Quelle che contaminano l’uomo non vengono dall’esterno, ma dall’interno, dal cuore.

L’elenco di dodici vizi (sei al plurale e sei al singolare) che rendono impuri indica quali sono i punti su cui, chi si ritiene religioso si deve esaminare. Ciò che discrimina fra azioni buone e azioni malvagie non è la conformità o difformità da una norma, ma il fatto di essere in favore o contro l’uomo. E ciò che è affermato per i cibi vale per tutti gli altri precetti derivati dalle “tradizioni degli antichi”.

Al centro della gradinata che, dal lato meridionale, introduceva nel tempio di Gerusalemme, erano collocate numerose vasche adibite alle purificazioni dei sacerdoti e dei pellegrini che salivano per offrire sacrifici. A chi è divenuto cristiano, queste vasche non servono più perché, ai suoi discepoli, Gesù chiede solo la purità di cuore. Alla domanda: “Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?”, egli, con il salmista, risponderebbe: Chi ha mani innocenti e cuore puro (Sl 24,1-2) e aggiungerebbe: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello. Poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Solo chi è in pace con il fratello è puro e può accostarsi a Dio.

 

 

 


Il vangelo in poche parole

«Era una Legge non in ragione di se stessa, ma solo in funzione di un popolo proteso in avanti. Era garanzia di compattezza, di tensione verso la promessa di Dio; legge aperta verso il futuro e quindi relativa e disponibile al cambiamento. Assoluto è soltanto il viaggio, non la legge. Come dirà s. Paolo tanto tempo dopo: la legge è pedagogia verso l’adempimento. Quando la legge diventa un assoluto, in quel momento si arresta il viaggio, muore la speranza ed entriamo nell’idolatria del sabato contro cui Gesù dovette combattere. La Legge è buona, ripeterà Paolo di Tarso, uno dei suoi più alti critici, perché essa custodisce la speranza del futuro».

p. Ernesto Balducci

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Lectio Parola festiva: meditarelaparola.blogspot.com (testo)

 

29/08/2021 Categoria: Torna all'elenco