Era la festa di san Domenico, il 4 agosto del 1946, quando a Bologna
il cardinal Giovanni Battista Nasalli Rocca di Corneliano ordinava
sacerdote il ventitrenne Luigi Bettazzi.
Sono passati 75 anni e Bettazzi ne ha vissuti 58 da episcopo (3 come
ausiliare di Bologna col cardinal Lercaro, 32 come vescovo di Ivrea e
per ora 22 come vescovo emerito), ed è l’ultimo vescovo italiano ancora
in vita ad aver partecipato al Concilio Vaticano II.
Un credente che ha cercato sempre di coniugare la riflessione
religiosa con l’impegno sociale; una voce libera, spesso fuori dal
monocorde coro dell’episcopato italiano. Quando mi capitava di
incontrarlo – e sono state tante le volte – mi raccontava questa
barzelletta: “Una mattina il cardinale Ottaviani [capo del Sant’Uffizio
ed esponente di spicco della linea conservatrice] si svegliò tardi.
Chiamò un taxi e disse al taxista: “Portami in fretta al Concilio”.
Salito in auto, si riaddormentò. Quando finalmente si destò scoprì con
suo grande stupore di trovarsi in aperta campagna. “Ma dove mi porti?”.
Il taxista: “Al Concilio di Trento. Dove se no?””
La minoranza che considera il Concilio una pietra d’inciampo
La battuta di mons. Bettazzi mi sovviene ogni volta che assisto
alle reazioni scomposte di una parte (molto minoritaria ma chiassosa)
della comunità cristiana rispetto alle indicazioni e alle scelte di papa
Francesco. Che sia il Motu proprio “Traditionis custodes” che
aggiorna le norme a suo tempo stabilite da papa Benedetto XVI e pone
fino all’uso strumentale del Messale Romano del 1962 o le dimissioni
respinte del cardinal Marx, per molti anni a capo della vivace e
turbolenta chiesa tedesca, la questione di fondo è che il Concilio
Vaticano II rappresenta – per molti accusatori di questo pontificato –
la vera pietra d’inciampo. Per tanti di loro l’assise conciliare ha
tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”.
È facile comprendere il
loro sgomento. Noi tutti – anche in terra bergamasca, dove la
presunzione ci aveva portato a credere di esserne al riparo – ci
troviamo di fronte a una svolta epocale nella civiltà umana. Una svolta
che sta producendo una specie di mutazione antropologica che cambia le strutture profonde dell’umano e che rende i credenti sempre più afoni e marginali dentro la vita delle persone.
Un’emancipazione – frutto inesorabile della post modernità – che
rende la Chiesa e la comunità cristiana non più nella sala di regia
della vita della città, non più la fontana del villaggio. La tentazione –
di fronte al mondo che frana – è quella dell’arroccamento, del
rinchiudersi nel perimetro identitario che fugge ogni connessione con il
mondo esterno.
L’illusione è considerare la crisi come passeggera e
ritenere che tutto ciò sia accaduto perché è venuta meno “la dottrina” e
che a questo mondo in cammino verso lidi ancora incerti serva offrire
certezze e verità.
Il Concilio e l’opportunità di ridire l’umanità del Vangelo
Il Concilio Vaticano II ha invece offerto la chiave per stare dentro
questo tempo. Ha restituito ai cristiani lo sguardo utile per leggere il
presente. Rimettendo al centro la Parola e la cura liturgica (culmen et fons) ha chiesto alla comunità cristiana di avere coraggio per guardare la crisi di questo nostro tempo e coglierla come un’opportunità straordinaria per ridire l’unica cosa che i cristiani hanno di prezioso: l’umanità del Vangelo. Perché
i cristiani – e il Concilio Vaticano II lo ha ribadito con forza –
sanno di non poter restare umani separandosi dalla storia. Perché il Dio
di Gesù Cristo alla storia è legato per sempre. Il mondo è diventato la
basilica dove scovare le tracce di Dio: non c’è altro posto. Occorre discernere, scegliere e custodire l’essenziale della fede cristiana. E guardare con coraggio i segni dei tempi dove Dio si fa trovare. Spesso, in luoghi lontani da come ce li eravamo immaginati.
Quello che è certo è che stiamo velocemente camminando verso una nuova forma di cristianesimo. Un cristianesimo per scelta e dunque un cristianesimo di minoranza. Dove si giungerà alla fede per conversione e per convinzione. Piccole comunità fondate più sulle relazioni che sulle strutture,
in una pastorale più di proposta che di conservazione. Non spaventate
di essere una “parte”, neanche la più consistente, del “tutto”, in una
società sempre più “plurale”, segnata sia dalla crescita esponenziale
degli “indifferenti”, sia dal timido ma costante affacciarsi nei nostri
territori dei “differenti”, uomini e donne che credono in un Dio diverso
dal Dio di Gesù Cristo.
Una mutazione profonda, che esigerà di
ripensare in modo radicale forme e ministeri. Servirà a poco pensare di
stare nel cambiamento senza farsi cambiare. Ciò che deve rimanere
intatta è la fiducia. Perché, piaccia o meno, il Signore è dentro questa
storia. Nonostante tutte le nostre paure.