Il nostro contesto.
Una signora mi disse: “Io sono
molto cattolica perchè i miei genitori erano molto di chiesa, ho una
sorella suora, uno zio prete e sono devota di Padre Pio”. Mi è anche
stato detto: «Se tutti quelli che applaudono il Papa, mettessero in
pratica quello chiede, il mondo non sarebbe quello che è!». E’ vero:
persiste lo strappo tra consenso e partecipazione, tra culto e vita, tra
declamazioni del Credo ed etica quotidiana, tra utenza
religiosa e partecipazione corresponsabile alla comunità di
appartenenza. Per molto tempo nelle inchieste socio religiose si è
ritenuto di poter misurare la religiosità dei gruppi e delle persone in
base a indicatori incentrati sulla pratica religiosa (Messa,
sacramenti…). Si è poi scoperto che la registrazione di comportamenti
esteriori non faceva giustizia di tutti quei valori interiori che sono
presenti nei cristiani non praticanti che, per scelta o necessità,
costituiscono la “chiesa anonima”. Molte persone ritenute lontane,
indifferenti, critiche o atee, risultano portatrici di semi evangelici.
Ma il gap tra ortodossia e ortoprassi, cioè tra ineccepibili
proclamazioni e coerenti comportamenti, esiste anche al di fuori della
chiesa e della religione: chi di noi non sente fastidio davanti al
moltiplicarsi di proclami politici, di Carte dei diritti, di raccolte di
firme che non trovano riscontro nella pratica? I confini, insomma, tra
il “sì” e il “no” sono tutti da scoprire. Anche perché questi confini,
non ben definiti, esistono dentro ciascuno di noi. Scriveva Padre E.
Ronchi: «Un uomo aveva due figli. E si potrebbe dire: un uomo aveva
due cuori. Perché quei due figli sono il nostro cuore diviso, un cuore
che dice sì e che dice no, un cuore che dice e poi si contraddice. Come
san Paolo anche noi constatiamo che “io faccio quello che non vorrei e
il bene che pure vorrei fare non riesco a farlo”. Una delle preghiere
più importanti dei salmi chiede: Signore, donami un cuore integro, fa’
che non abbia due cuori, in lotta tra loro, donami un cuore unificato
(Salmo 101)».
Il contesto di Matteo.
Non tanto lontane da noi erano le preoccupazioni dell’Evangelista Matteo quando ricordava che «Non chiunque dirà ‘Signore, Signore’ entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio»
(7,21) e quando decideva di raccogliere nei capitoli 21 e 22 tre
parabole: dei due figli (21,28-32), dei vignaioli omicidi (21,33-44) e
del banchetto nuziale (22,1-14), trittico parabolico proposto ai capi
del popolo mentre Gesù sente vicina la sua fine. Davanti a lui stanno i
sommi sacerdoti (alti funzionari del tempio) e gli anziani
(l’aristocrazia laica) cioè quelli stessi che tra poco lo condanneranno.
“La figura dell’oppositore che Gesù ha incontrato – che si tratti
dei farisei o delle autorità o di altri – nei Vangeli viene sempre
enfatizzata, in qualche modo trasformata, in una figura tipica e
ripetibile: la figura del “credente incredulo”. Ciò che
è accaduto allora può riprodursi oggi, questo è il messaggio; e il
rifiuto di allora può diventare anche il nostro e per gli stessi motivi”[1].
In queste parabole, che celebreremo per 3 domeniche successive, possiamo tener presenti 2 livelli di lettura.
- C’è prima di tutto un livello
interpretativo che corrisponde al primo problema della Chiesa di Matteo:
come mai gli ebrei preparati da secoli di catechesi e rivelazioni hanno
detto “SI” a Dio ed ora rifiutano Gesù il Cristo e i suoi missionari,
mentre i pagani, i “senza storia”, i “senza Legge” stanno aderendo
felicemente alla nuova proposta cristiana? “Il problema che si pone
con particolare urgenza nell’interpretazione di Matteo è quello dei
rapporti tra “la Chiesa del Messia” e la sinagoga ebraica. La chiesa di
Matteo tende a smarcarsi dal giudaismo rabbinico come ogni minoranza che
cerca di definire la propria identità. Matteo è il testimone di un
grande sforzo nella definizione dei rapporti tra chiesa messianica ed
ebraismo rabbinico nel I° secolo”[2].
Per la Chiesa di oggi il problema di Matteo sembra che non sia più
attuale. Ma è vero? Matteo riporta queste sentenze e parabola in
funzione dei problemi della sua comunità sulla falsa sicurezza dei
cristiani formali che ritengono di essere a posto per il fatto che
appartengono alla comunità e si accontentano di dichiarazioni verbali.
Si tratta di quella presunzione, che ci accomuna in molti, che ci fa
assomigliare al figlio maggiore (nella parabola detta del “Figlio
prodigo”) che pensava di essere “in casa”, ma di fatto ne era “fuori”.
Anche Pietro proclama un credo ortodosso ma diventa poi pietra di
inciampo, dichiara di voler morire con Gesù e poi rinnega per paura. I
confini tra il “dentro” e il “fuori” sono tutti da rivisitare. Nessuno
di noi può esentarsi dal sentirsi rivolte a sè le parole di Gesù: “Molti
mi diranno in quel giorno: «Signore, Signore, non abbiamo noi profetato
nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli
nel tuo nome?» Io però dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti;
allontanatevi da me, voi operatori di iniquità»”(Mt 7,22-23). Anche a noi può essere rivolto il richiamo di Giovanni Battista: “Non crediate di poter dire fra voi: «Abbiamo Abramo per padre». Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”(Mt
3,9). Non farebbe male leggere tutto il capitolo 18 di Ezechiele
dedicato a questo tema che, nel giudaismo del suo tempo, costituiva una
rottura: il Signore giudica non dalle appartenenze sociologiche, nè
dagli alberi genealogici di parentela o dalle iscrizioni ai registri
anagrafici parrocchiali.
- Poi c’è un secondo livello ecclesiale
di lettura costituito dal rapporto tra culto e vita, tra proclamazione e
prassi, tra ortodossia ed ortoprassi. Matteo parrebbe essere molto
vicino all’indirizzo catechetico di Giacomo: “La fede senza le opere è morta” (Giac. 2,17). Paolo dirà, usando un termine greco quasi intraducibile in italiano (“aletheuontes = facenti la verità”): “fate la verità nell’amore”(
Efesini 4,14). Matteo, esperto scriba, sa tradurre e interpretare
l’Antica Rivelazione. Non può quindi non ricordare Esodo 24,7. Dopo che
Mosè ebbe letto pubblicamente il «documento dell’alleanza» il popolo
disse: “Tutto ciò che ha detto il Signore, noi lo faremo e lo ascolteremo”. M. Buber dice che quella congiunzione tra i due verbi “noi faremo e ascolteremo” va tradotta con “Noi faremo al fine di ascoltare”. Nel Vangelo Gesù dice a qualcuno “Vieni e seguimi”; ad altri dice “Va’, la tua fede ti ha salvato…torna a casa tua…non peccare più”. Accade per il centurione, il paralitico, l’indemoniato, la donna emorroissa, una madre, la donna del profumo, l’adultera[3]. «E
che dire di tutti quei “benedetti del Padre” che incontrano Gesù
attraverso i carcerati visitati, i malati curati, a cui si fa
riferimento nel giudizio finale del Vangelo secondo Matteo?… Bisogna
decostruire gli stereotipi “praticanti-non praticanti”… Il rapporto tra
la Chiesa visibile e la Chiesa nascosta o disseminata non è un rapporto
di contrapposizione, bensì di complementarietà, di dinamismo… Quei
fedeli non esprimono la loro fede come desidereremmo, eppure molto
spesso la loro vita è apostolica, pur restando secolarizzata»[4]. Papa Francesco alla apertura del Convegno della diocesi di Roma (2013) aveva detto: «Nel
Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna
all’ovile, si accorge che manca una pecora, lascia le 99 e va a
cercarla. Ma noi ne abbiamo una; ci mancano le 99! Dobbiamo uscire e
andare da loro! Siamo minoranza. E noi sentiamo il fervore e lo zelo
apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? … È più facile
restare a casa con quell’unica pecorella, pettinarla, accarezzarla… E
quando una comunità è chiusa sempre tra le stesse persone, questa
comunità non è una comunità che dà vita. È una comunità sterile, non è
feconda».
Entriamo ora nella parabola.
Innanzitutto occorre attenzione al dialogo fatto di domande e risposte: All’inizio “Che ve ne pare?” e alla fine “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?”.
Mi intrigano certi dialoghi serrati tra Gesù e gli ascoltatori (noi?).
E’ come se mi trovassi con le spalle al muro o, dice il profeta Amos, «come
quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; riesce a
rifugiarsi in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde»
(5,19). Praticamente senza scampo. Poi occorre non perdere di vista la
vigna che, in questa porzione di tempo liturgico, resta un’icona
costante dei rapporti di alleanza con Dio e nell’ambito sociale ed
ecclesiale dove l’evangelo è chiamato a diventare amore di qualità. Il
cuore del brano evangelico sembra concentrarsi nelle due sentenze di
Gesù: «I pubblicani e le prostitute vi precederanno…i pubblicani e
le prostitute hanno creduto alla via della giustizia indicata dal
Battezzatore». Ed infine non pare di poco conto l’insistenza sul
baratro tra il dire e il fare, con una chiara scelta di Matteo a favore
del “fare”. La parabola ha due facce: sembra di trovarci di
fronte ad una specie di parabola ‘girevole’. Se rivolta ai peccatori li
assicura che le loro possibilità sono intatte: il no può diventare sì.
Se rivolta ai giusti, parla a loro dei peccatori: sono migliori di voi![5]
“Avendoci ripensato” .
Il dire rimane sempre ambiguo, solo il fare è decisivo. Ma prima del fare, Matteo aggiunge il pentimento. Il testo greco di Matteo sottolinea «”Non voglio!”. Alla fine però avendo mutato parere…». Il mio rischio è quello di non ricredermi neppure “alla fine”.
Nessuno dei due figli può vantare una obbedienza perfetta, una piena
corrispondenza tra il dire e il fare, tra la parola e la prassi. Nella
parabola manca un figlio, un personaggio: quello che dice SI e va di
fatto a lavorare. Forse questo personaggio, nascosto e non citato, è
Gesù, come dice l’apostolo Paolo: «Il Figlio di Dio, Gesù Cristo non fu SI’e NO, ma in lui c’è stato il SI’»
(2 Corinti 1,19). Almeno uno c’è riuscito. Alleluia. Per noi l’unica
chance di salvezza è la capacità di ricredersi, il coraggio di
contraddirsi, di ripensarci. Dunque, si può passare da un no ad un sì!
Non devo considerare i “no” miei e di altre persone come posizioni
immodificabili. Nella prassi del regno di Dio, cioè sotto lo sguardo di
Dio, esiste la possibilità di “ripensare”, di andare oltre i nostri
rifiuti. Dio non condanna coloro che fanno fatica a credere, che
esitano, che hanno paura a dire di sì: «Queste esitazioni, queste
resistenze sono umane, soprattutto davanti ad un appello che disturba e
che costa; è normale domandarsi se ne valga la pena… E’ dunque permesso
non credere subito, non impegnarsi immediatamente, avere paura…
L’essenziale è non far tacere l’appello» (Robert Grimm).
“Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Questa piccola parola – “OGGI” – va messa nella dovuta evidenza: «Noi
ascoltiamo la parabola oggi, qui ed ora: essa ci raggiunge là dove
siamo; fa irruzione nella nostra vita in questo “oggi”, come se tutto il
resto fosse cancellato: quel passato che è appunto fatto di esitazioni,
rinnegamenti, compromessi e peccati… che alimentano i nostri sensi di
colpa» (R. Grimm). Ogni giorno mi è chiesto di decidere, di rispondere. Non posso vivere di rendita dei “sì” di un tempo.
[1] B.Maggioni Le parabole evangeliche, Vita e pensiero
[2] A.Mello Evangelo secondo Matteo, Ed Qiqajon
[3] Mt 8,13; 9,6; Mc 5,19; 5,34;7,29; Lc 7,50; Gv 8,11
[4] Valérie Le Chevalier, Credenti non praticanti, Qiqajon, 2019
[5] B. Maggioni o.c.
Il vangelo in poche parole