“Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è
nei cieli” (Mt 5,48). Posto al termine delle riletture dei comandi
veterotestamentari che esprimono il volere di Dio, e della loro
interpretazione radicale che Gesù ne opera, questo comando-esortazione
appare come pietra di fondamento che regge tutto l’impianto delle
esigenze evangeliche e lo rende possibile, grazie alla fede,
radicandolo, in ultima istanza, in Dio stesso. È dalla perfezione di Dio
che sgorga il comando di amare il nemico (Mt 5,44). Così come
nell’Antico Testamento è dalla santità di Dio (Lv 19,2: “Siate santi
perché io, il Signore, sono santo”) che discende il comando di amare il
prossimo come se stessi (Lv 19,18: “amerai il tuo prossimo come te
stesso”). Il testo evangelico propone un’etica teologale,
un’etica che trova nell’essere e nell’agire di Dio per l’uomo il suo
fondamento. Il criterio etico che orienta l’agire umano può essere
espresso così: “Come Dio ha agito verso di te, così agisci anche tu
verso gli altri”. In questo modo, non solo viene superato il livello
della vendetta, del “Fai anche tu all’altro ciò che egli ha fatto a te”,
ma viene fondato e reso praticabile l’amore del nemico grazie
alla fede in Cristo che ha amato anche i nemici (cf. Gv 13,1; Rm 5,8).
L’etica teologale che Gesù ha vissuto nel suo quotidiano esige il
superamento della logica della reciprocità, che è anche logica di
ritorsione, di omologazione all’altro, di appiattimento sulla logica del
fare il male. L’etica teologica che Gesù vive e propone esclude il
meccanismo della mimesi, del ripetere ciò che l’altro ha fatto
rendendogli la pariglia e include il dinamismo dello scarto e della
asimmetria, il coraggio della diversità. Scrive Paolo: “Non rendete a
nessuno male per male … Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male
con il bene” (Rm 12,17.21).
Gli ultimi due esempi di giustizia superiore che Gesù espone non sono
comandi negativi, che proibiscono qualcosa, ma comandi positivi. In
particolare le parole di Gesù in Mt 5,38-42 affrontano l’esperienza
della violenza. Gesù si riferisce alla legge del taglione che
consiste nell’infliggere all’offensore una lesione uguale a quella che
lui ha inflitto all’offeso. Questa legge, estranea al decalogo, si trova
formulata in diversi passi dell’Antico Testamento. “Se uno farà una
lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro:
frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà
la stessa lesione che egli ha fatto all’altro” (Lv 24,19-20); “Vita per
vita, occhio per occhio, dente per dente,mano per mano, piede per piede,
bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es
21,23-24; cf. anche Dt 19,21). Il senso di questa legge era quello di
evitare la sproporzione tra lesione subita e reazione da parte
dell’offeso: il suo senso era dunque di inserire una misura, una
razionalità, una ponderatezza evitando l’eccesso espresso dalle parole
di vendetta di Lamec: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un
ragazzo per un mio livido” (Gen 4,23). Se già la legge del taglione era
un argine alla violenza indiscriminata e smisurata, Gesù propone una
pratica di attiva non-violenza applicata a diversi ambiti. Ma
prima ancora di proporre una strategia che si opponga alla violenza, la
Bibbia, e la parola evangelica in particolare, aiutano l’uomo a
discernerla, a nominarla, a smascherarla dunque, anche nei suoi
camuffamenti, e a riconoscere che essa non ci è estranea.
L’interpretazione che Gesù dà dell’omicidio svela le dimensioni
profonde, nascoste, interiori della violenza che si annidano nel cuore
umano e che spesso si manifestano come violenza quotidiana e sottile che
– senza spargimento di sangue, ma lasciando il cuore profondamente
ferito – si gioca all’interno delle relazioni famigliari, dei rapporti
tra fratelli, tra genitori e figli, tra uomo e donna. È la violenza
dell’uomo che non sa addomesticare l’animalità che abita il proprio
cuore, che comincia in forma nascosta o appena visibile, che si insinua
di soppiatto in uno sguardo, in un atteggiamento, in un gesto, nelle
parole.
Il caso dello schiaffo (v. 39) si riferisce ai casi di esplosione
violenta nelle relazioni famigliari e sociali di ogni giorno, dunque
all’ambito della vita quotidiana.
Il caso intravisto nel v. 40 riguarda un processo per pignoramento: sono intraviste le situazioni di ingiustizia e violenza sociale,
strutturale; le istituzioni che, poste a servizio della giustizia,
possono divenire strumenti di ingiustizia. Possiamo pensare alla
violenza della burocrazia con la sua impersonalità e la sua indifferenza
all’individualità umana.
Il caso del v. 41 si riferisce a prestazioni coatte, ad angherie,
all’atto con cui si costringe qualcuno a compiere qualcosa, come nel
caso di Simone, “un uomo di Cirene” (Mt 27,32), costretto dai soldati a
portare la croce di Gesù fin sul Golgota. Vi possiamo vedere la violenza
dell’abuso, del piegare la volontà dell’altro a fare ciò che
vogliamo noi. E l’ambito dell’abuso abbraccia il piano fisico e
sessuale, psicologico e spirituale.
E può configurarsi come violenza anche la pressione, l’insistenza di una domanda per ottenere denaro e prestiti (v. 42). L’ambito economico è più che mai capace di scatenare cupidigia e violenza.
Soprattutto le prime tre indicazioni che Gesù dà come risposta
all’atto violento sono paradossali: porgere l’altra guancia a chi ci ha
colpito con uno schiaffo; lasciare anche il mantello a chi ci vuole
togliere la tunica; a colui che ci obbliga ad accompagnarlo per un
miglio farne due insieme. Gesù non fornisce indicazioni precise e
concrete per l’azione, non indica delle leggi di comportamento a cui
attenersi, ma le risposte sono tutte in linea con la giustizia
sovrabbondante richiesta ai suoi discepoli. Chiedendo di non opporsi a
chi agisce con malvagità, Gesù non invita alla passività o a farsi
complici del male rifiutandosi alla ribellione, ma indica la strada di
un agire che spiazza il malvagio e può perfino disarmarlo rispondendo al
male moltiplicando il bene. Gesù chiede un di più nel fare il bene, un
“di più” che implica un lavoro su di sé per tenere a freno la propria
istintiva reazione uguale e contraria che cadrebbe nelle spire della
violenza, ma anche una forza interiore che conduce a fare il bene a chi
ci ha fatto il male. Un simile comportamento è proprio solo di persone
profondamente libere, libere da quella tirannia dell’io che spesso
attanaglia le nostre vite. Libere da quella volontà di ripicca e
ritorsione che imprigiona gli umani ostacolando il loro accesso alla
libertà di chi perdona. Chi perdona, infatti, non libera soltanto colui
che ha commesso il male, ma anche e anzitutto se stesso: libera se
stesso dal dover vivere come ostaggio e prigioniero del male subito una
volta.
Chiedendo dunque al credente di non opporre resistenza al malvagio, Gesù prepara già la strada al comandamento positivo di amare il nemico
(v. 44). Se la violenza fa parte del mondo irredento, essa si oppone al
Regno di Dio e non può rientrare nella prassi messianica. Di questa fa
invece parte l’amore sovrabbondante che si spinge fino ad abbracciare i
nemici. La richiesta di amare i nemici si situa al cuore della “differenza cristiana”:
che cosa differenzia il cristiano rispetto a pagani e pubblicani, a
indifferenti e non credenti? Gesù chiede ai credenti di uscire dalla
chiusura in ciò che è omologo, simile, reciproco, autoreferenziale:
amare chi già ci ama, salutare solo i propri fratelli, amici e
conoscenti (Mt 5,46-47). Si tratta invece di osare l’alterità, di avere
il coraggio della diversità e di vincere con l’amore la paura del
diverso e dell’altro. Fattore di violenza è l’assolutizzazione del
medesimo, dell’identico, che si può tradurre nella riduzione delle
relazioni sociali alla mera materialità del dato naturale, alla
esaltazione della consanguineità, dell’omogeneità del dato etnico.
Gesù si rifà al comando, non presente nel decalogo ma in Lv 19,18,
“amerai il tuo prossimo” e prende di mira l’interpretazione che dice di
“amare di meno” o “non amare” (senso del semitismo “odiare”) il nemico.
La sua interpretazione radicale va nel senso di amare perfino il nemico.
Certo, visto che amare il nemico è tutt’altro che naturale, Gesù
accompagna questo comando a quello che chiede di pregare per coloro che
ci perseguitano: solo se con la preghiera riusciamo a porre il volto
dell’altro davanti al Signore, noi possiamo vederlo non più come volto
nemico ma ritrovarlo come volto di fratello.
Praticare l’amore verso il nemico contiene in sé una promessa
escatologica che ha risvolti storici nell’oggi: “amate i vostri nemici e
pregate per quelli che vi perseguitano affinché siate figli del Padre
vostro che è nei cieli” (v. 45). Vivere l’amore del nemico significa
essere immersi nell’amore di Dio che in Cristo si è manifestato come
amore per i nemici: tale immersione rigenera il credente, lo fa nascere
nella prassi a figlio di Dio, appartenente a Dio e somigliante a Gesù
Cristo. Alveo e matrice di questa nascita alla somiglianza con Dio
(cf. v. 48) è l’esperienza dell’amore universale di Dio, della sua
bontà incondizionata, del suo amare buoni e cattivi, giusti e ingiusti.