Con Mt 10,37-42 si conclude il discorso missionario.
Sarà necessario partire dal v. 34, in cui Gesù dichiara quale sia lo
scopo e il presupposto, nello stesso tempo, della sua venuta.
La sua dichiarazione può ricordarci la profezia di Simeone
riferitaci da Lc 2,35: di fronte a lui non si resterà neutrali, una
spada trapasserà l’anima di Israele, famiglia per famiglia, sinagoga per
sinagoga. Che si tratti di un grosso coltello d’uso quotidiano o una
spada corta (machaira, cf. Mt 10,34), oppure di una lunga spada da combattimento, eventualmente a due tagli (romphaia, cf. Lc 2,35), la venuta di Gesù si rivela sempre come qualcosa che divide,
separa, fa soffrire e, alla fine, sanguinare. D’altra parte sappiamo
fin dal principio che non ci può essere vera unione né comunione senza
una previa separazione; la stessa opera della creazione è spesso
divisione e separazione, e culmina in quella dell’uomo dai suoi genitori
per la donna (cf. Gen 2,24), nella migrazione di Abramo (cf. Gen
12,1ss) e infine nell’elezione d’Israele.
Sotto il segno della separazione sono perciò le caratteristiche di chi voglia seguire Gesù.
Troviamo infatti alcune brevi affermazioni a due membri: il primo,
costruito in quasi tutti i casi con un participio, enuncia la
caratteristica del discepolo, il secondo la conseguenza. Sono
affermazioni incisive che non hanno nulla di ipotetico, come per esempio
Lc 14,26. Si è «degni» essendo decisi nella separazione dalla famiglia e dagli affetti naturali (il verbo «amare» è phileo)
come dalla più vasta famiglia della sinagoga, fino a prendere la croce,
ovvero sino a percorrere lo stesso itinerario di Gesù, che di fatto ha
lasciato la famiglia, di cui non sapremo più nulla. Avremo solo qualche
accenno alla madre che però egli tratta con molto distacco, niente su
Giuseppe. La croce, stauron (v. 38), compare qui per la prima
volta, e come sappiamo indica una morte da reietti, se vogliamo il
massimo della separazione sociale.
Al centro sta il problema della psyche, che in questo caso è
tradotto «vita» e non «anima». Nel termine «vita» si contrappongono qui
due realtà: la vita nel tempo e le ragioni che la guidano e la
sorreggono. La domanda è se per vivere si possa rinunciare alle ragioni del vivere.
Detto così è una domanda retorica, perché certamente non si può, pur di
sopravvivere, perdere queste ragioni. Chi per esse invece rinuncia a
sopravvivere ritrova la sua vita in maniera autentica. Semmai si tratta,
per il discepolo, di conoscere queste ragioni e identificarsi con esse,
appunto fino alla croce.
Se le condizioni dei primi due versetti hanno come esito l’essere degni, gli ultimi due parlano invece di una ricompensa (misthon).
Non si precisa quale essa sia, se non che è pari o adeguata alla
persona accolta. Di un profeta, se si accoglie un profeta; di un giusto,
se si accoglie un giusto. Tuttavia la ricompensa toccherà anche
nell’unico caso presentato come ipotesi (os an potise, v. 42),
che riguarda una cosa molto piccola come un bicchiere d’acqua, non una
testimonianza estrema come la croce. A dire che nulla va perduto e che non esiste insignificanza nel bene.
Tra l’essere degni e una ricompensa sta la vita da trovare o da
perdere. Perché la vita non è qualcosa da rapinare, alla maniera dei
progenitori, che han preso con rapina ciò che era già loro (cf. Gen
3,1ss). La vita si riceve in dono, non come qualcosa da custodire in maniera passiva, ma da trafficare a proprio rischio, fino al totale dono di sé.
La stessa vita in termini meno drammatici e più quotidiani tocca in sorte alla donna di Šunem
che appunto ha accolto un profeta. Per lei la ricompensa è un figlio da
abbracciare (cf. 2Re 4,16) che rappresenta la vita, nella forma del
futuro suo e della sua famiglia.
La donna ha esercitato un’ospitalità generosa e
intelligente e quando il profeta le ha fatto chiedere se avesse bisogno
di protezioni altolocate ha risposto semplicemente che si sente tutelata
dal suo clan (v. 13). Non conosce l’identità profetica di Eliseo, sa
che è ̛̛iš ̛elohim, «un uomo di Dio», genericamente, ma già dalla sua vicenda sappiamo che nulla nel bene va perduto.
Il vangelo in poche parole