Dopo essere entrato nella città santa di Gerusalemme in mezzo ad acclamazioni (cf. Mt 21,1-11) e aver compiuto il gesto della cacciata dei commercianti dal tempio (cf. Mt 21,12-17),
Gesù torna nel tempio per annunciare con parabole la venuta del regno
dei cieli. Oggi ascoltiamo la seconda di queste parabole, in realtà
un’allegoria, indirizzata a quei sacerdoti e anziani del popolo che
erano venuti a contestare Gesù interrogandolo sulla sua autorità,
sull’origine della sua missione (cf. Mt 21,23-27).
Ancora una volta Gesù ripete l’invito: “Ascoltate!”, ridice questo
comando tante volte gridato da Mosè e dai profeti. Si tratta di smettere
di sentire soltanto, per imparare ad ascoltare con attenzione una
parola che viene dal Signore, ad accogliere nel cuore questa parola al
fine di operare un mutamento e realizzare ciò che il Signore chiede a
chi è e vuole essere in alleanza con lui.
Eccoci allora di fronte a un’altra parabola che evoca una vigna, come già quella ascoltata domenica scorsa (cf. Mt 21,28-32).
Nel Mediterraneo la vigna è la coltivazione per eccellenza, che
comporta anni di lavoro, richiede cura e amore, esige un rapporto
stabile e pieno di attenzione verso di essa da parte del vignaiolo.
Basta pensare che la vigna è un impianto stabile, occupa il terreno per
generazioni, non è come un prato o un campo che annualmente possono
essere destinati ad altre coltivazioni. Proprio questo legame duraturo,
questa vera e propria alleanza tra la vigna e il vignaiolo, generano un
amore profondo ed appassionato da parte di chi lavora per la “sua“
vigna. Sono queste le ragioni per cui già i profeti avevano intravisto
nell’amore tra vignaiolo e vigna una narrazione dell’amore tra Dio e il
suo popolo ed erano ricorsi all’immagine della vigna per esprimere il
rapporto di alleanza: una storia tormentata ma piena di amore tra il
Signore e la sua proprietà, il suo tesoro (segullah: cf. Es 19,5; Dt 7,6, ecc.). Isaia, in particolare, aveva cantato “il canto di amore dell’amante per la sua vigna“ (Is 5,1;
cf. vv. 1-7), raccontando di un vignaiolo che aveva vangato la terra,
l’aveva liberata dai sassi e vi aveva piantato ceppi scelti di vite.
L’aveva addirittura ornata con una torre in cui aveva posto un tino.
Avendole dedicato tanta cura, si aspettava da essa uva buona e bella,
invece quella vigna si era inselvatichita producendo grappoli di uva
immangiabile.
Questa immagine era ben conosciuta da Gesù e dai suoi ascoltatori,
perciò, non appena Gesù inizia la parabola dicendo che “un padrone aveva
piantato una vigna“, i presenti capiscono subito di cosa si tratta: è
una storia su Dio e su Israele, sua vigna. Questo canto che esprime la
speranza di Dio e, nel contempo, l’incapacità del popolo di comprendere
il suo amore, dunque un canto di accusa verso Israele, è stato
conservato e tramandato proprio da Israele. Il popolo dell’antica
alleanza non ha espunto dalle Scritture i rimproveri e i giudizi di Dio
nei suoi confronti: questo va tenuto presente da noi quando leggiamo
questa parabola e, facilmente, siamo tentati di puntare il dito contro
questo popolo, fino a gloriarci di essere noi il popolo del Signore al
quale è stata data la vigna tolta ad altri. Stiamo attenti, perché
questa parabola che Matteo colloca nel vangelo indirizzato ai cristiani
riguarda certamente i capi religiosi di Israele, ma riguarda anche i
capi che sono nella chiesa e riguarda pure noi!
Ebbene, questo proprietario della vigna, che l’ha piantata e l’ha
dotata di tutto il necessario perché fruttifichi, la affida a dei
contadini perché la lavorino in sua assenza: la vigna continua a essere
sua proprietà, ma è affidata ad altri uomini in tutto il tempo della
presa di distanza e dell’allontanamento da essa da parte del Signore.
Giunge però l’ora della vendemmia, un giorno preciso in cui le uve sono
mature, all’inizio dell’autunno, e allora il padrone manda alcuni suoi
servi dai vignaioli per ritirare il raccolto con cui produrre il vino.
Perché il raccolto resta suo, come la vigna è sua! Ma nel frattempo è
sorta in quei vignaioli la tentazione di essere loro i padroni della
vigna, perché il padrone ha tardato molto tempo prima di ritornare.
Questa è la tentazione di chi è stato posto dal Signore come primo, come
più grande, come lavoratore nella sua vigna: spadroneggiare sulla
vigna, pensarla come proprietà personale, sostituendosi a colui che deve
invece solo rappresentare nel servizio. Così quei vignaioli, all’arrivo
dei servi inviati dal padrone, reagiscono con un rifiuto violento.
Colpiscono alcuni e ne uccidono e lapidano altri, per farli scomparire.
Il Signore però pazienta, continua ad aspettare il frutto della vigna e
invia altri servi, in numero più grande di quanto fatto nella prima
missione. Ma anche questi vengono trattati allo stesso modo, subendo
rifiuto e rigetto.
Il Signore dunque nella sua makrothymía (sentire in grande,
pazienza) fa un ultimo tentativo. Siccome spera ancora, decide di
inviare suo figlio, che ha più autorità dei servi. La sua speranza
profonda è che, vedendo il suo figlio amato, i vignaioli sentano di
avere di fronte a sé il signore stesso e dunque, portando rispetto a
lui, gli consegnino il frutto della sua vigna. Ingenuità di questo
padrone? No, da parte sua c’è la volontà di restare in alleanza con i
vignaioli a cui ha affidato la vigna. Cosa avviene invece? Quei
vignaioli, “al vedere il figlio”, aumentano ancora di più il desiderio
di essere padroni, di avere potere sulla vigna, perciò dicono tra sé:
“Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”.
Innanzitutto escludono il figlio dalla sua vigna, prendendolo e
gettandolo fuori, poi lo uccidono; prima lo portano “fuori”, fuori dalla
vigna, fuori dalla città (cf. Lc 4,29; Mc 15,20; Mt 27,31; At 7,58), poi lo eliminano.
Gesù racconta questa allegoria alla vigilia della sua passione, la
racconta proprio per quelli che la metteranno in pratica contro di lui,
fino a rigettarlo fuori dalla città e a crocifiggerlo. Così Matteo ci
mostra che Gesù ha coscienza di essere il Figlio inviato dal Padre nella
vigna di Israele, sa ciò che lo attende come fine (télos) della sua missione in questo mondo e non si sottrae a questa necessitas humana
inscritta nella storia: in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere
rigettato fino a essere eliminato! Gesù sa che il Padre non l’ha
mandato nel mondo perché subisca la morte violenta; sa che il Padre,
come il padrone della vigna, lo ha inviato perché sperava, perché spera
di essere accolto. E anche se questa è la fine dolorosa che lo attende,
Gesù sa che l’ultima parola spetta comunque al Padre. Conoscendo le
sante Scritture e pregandole, sa infatti che – come sta scritto – la
pietra che proprio i costruttori (questo è il termine con cui si
chiamavano i capi religiosi del tempio) avrebbero scartato, messo fuori
dalla costruzione, Dio l’avrebbe scelta e posta come testata d’angolo,
facendo poggiare su di essa tutta la costruzione. Gesù crede, aderisce a
questo piano di Dio profetizzato e cantato nel salmo 118.
Questa parabola risuona certamente come un giudizio di Dio: non però
sul popolo d’Israele, ma su quei capi del popolo che hanno rigettato e
condannato Gesù. Matteo, infatti, registra subito la loro reazione:
cercano di catturarlo ma hanno paura della folla, per questo decidono di
rimandare di qualche giorno il loro piano, attendendo una situazione
più propizia (nella notte e nel Getsemani, dove non ci sarà la folla dei
suoi seguaci; cf. Mt 26,47-56).
Hanno infatti compreso che quella parabola individua proprio in loro i
vignaioli omicidi. Ma la parabola dice che questo sarà pure il giudizio
sulla chiesa, soprattutto sui suoi capi. La vigna è stata tolta a quei
capi di Israele e data una nuova collettività umana (éthnos): la comunità dei poveri nello spirito, dei miti che, secondo la promessa del Signore, erediteranno la terra (cf. Mt 5,5; Sal 37,11), a quel popolo umile e povero costituito erede per sempre dal Signore (cf. Sof 3,12-13; Is 60,21; Ger 30,3).
Certo, al suo interno ci saranno ancora dei pastori, dei capi, dei
primi, ma stiano attenti a non essere come i vignaioli della parabola.
La loro tentazione, infatti, è quella di occupare tutto lo spazio
ecclesiale, assolutizzando i loro progetti e chiedendo obbedienza a sé;
la loro tentazione è quella di sostituirsi al Signore, magari con il
semplice stare al centro, sentendosi non servi dei servi, ma padroni.
Anche nella chiesa può accadere come nella parabola. E, se anche in essa
non si manifesta la violenza fisica (come però è purtroppo avvenuto in
altre epoche storiche!), oggi magari si pratica la violenza del non
ascolto, del rifiuto, dell’emarginazione, della calunnia, del disprezzo,
della manipolazione, dell’abuso psicologico. Queste le tentazioni dei
vignaioli perfidi, ma anche, qui e ora, di chiunque nello spazio
ecclesiale, nella vigna, esercita l’autorità. Non si scarichi dunque
l’accusa di questa parabola su Israele, ma si pensi a noi, oggi, nelle
vigne delle chiese.
Il vangelo in poche parole