«Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando
ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di
piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo
sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci
totalmente di Dio». Cosi disse il cardinal Martini alcuni mesi
prima della sua morte avvenuta il pomeriggio del 31 agosto del 2012. Una
figura – la sua – che è stata riferimento fondamentale per moltissimi
credenti e non credenti. Un credente “credibile”, un uomo libero le cui
parole, mai di circostanza , erano radicate in un legame autentico con
la Parola di Dio.La sua memoria è vivissima ancora oggi, a due anni
dalla sua scomparsa. Basta recarsi nel Duomo di Milano. Davanti alla sua
tomba c’è sempre un via vai continuo. Gente che prega, che sosta in
silenzio, accende una candela.
IL VESCOVO DEL VATICANO II
Martini non aveva partecipato al Concilio, ma tutta la sua vita è
stata intrecciata alla straordinaria novità con cui la Chiesa del
Novecento aveva saputo ripensare se stessa, la fede e il mondo; di
questa novità egli è stato il più lucido e coraggioso interprete
nell’episcopato italiano, e a una delle conversioni più decisive della
Chiesa conciliare, quella del ritorno alla Bibbia e della sua
restituzione alla preghiera e alla riflessione dei credenti, ha dato
strumento e voce, sia con i suoi studi biblici e la sua riedizione dal
greco del Nuovo Testamento, accolta e usata da tutte le Chiese
cristiane, sia con la generosa somministrazione della Sacra Scrittura
nella «Scuola della Parola» e nelle sue catechesi e letture bibliche ai
fedeli di Milano.
L’eredità del cardinal Martini la si misurerà con il tempo. Non bastano
le molte pagine, di rispetto, stima e ammirazione, comparse – durante i
giorni della sua morte – sui più importanti quotidiani del mondo; le
migliaia di persone che hanno sfilato, giorno e notte, in Duomo per
pregare attorno alla sua salma; il popolo che ha affollato e gremito la
chiesa e la piazza per partecipare all’Eucarestia funebre. Quel popolo
ambrosiano per cui il cardinale è stato motivo di orgoglio avendo
salvato l’onore della città attraversata nei suoi ventidue anni di
episcopato dal terrorismo, da Mani Pulite, dal berlusconismo e dal
degrado morale. Restano i suoi scritti, le sue scelte pastorali, il suo
sguardo, da credente, sulla storia. Per il cardinal Martini, a
differenza di altri gruppi e movimenti che hanno guardato con diffidenza
la sua azione pastorale, il mondo moderno non era vuoto di valori, ma
possedeva per lo meno quella fiducia nella ragione grazie alla quale
presentare domande che, se valutate ed ascoltate (si ricordi la «cattedra dei non credenti»),
non risultano affatto superflue, ma possono aprire all’Assoluto ed
esserne impregnate e salvate, per le tante vie misteriose della salvezza
operata da Dio. Martini ha sempre creduto insomma che la rivelazione di
Dio fosse anche dentro l’essere dell’uomo e che perciò occorresse
sempre dialogare col mondo, anche con quello più lontano.
RIPRENDERE LO SLANCIO DEL CONCILIO
In un dialogo con Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano “La
Repubblica”, alla domanda se non riteneva che la spinta del Vaticano II
si fosse indebolita, il cardinal Martini rispose così: «Non penso ad
un Vaticano III. E’ vero che il Vaticano II ha perso una parte della
sua spinta. Voleva che la Chiesa si confrontasse con la società moderna e
con la scienza, ma questo confronto è stato marginale. Noi siamo ancora
lontani dall’aver affrontato questo problema e sembra quasi che abbiamo
rivolto il nostro sguardo più all’indietro che non in avanti. Bisogna
riprendere lo slancio ma per far questo non è necessario un Vaticano
III. Ciò detto io sono favorevole ad un altro Concilio, anzi lo ritengo
necessario, ma su temi specifici e concreti. Ritengo anzi che
bisognerebbe attuare ciò che fu suggerito anzi decretato dal Concilio di
Costanza, cioè convocare un Concilio ogni venti o trent’anni ma con un
solo argomento o due al massimo».
Insomma, era chiara a Martini la consapevolezza che il Concilio Vaticano
II, a cinquant’anni dal suo inizio, non fosse stato ancora pienamente
assorbito dalle comunità cristiane. Lo aveva ribadito, una decina di
anni prima, durante un Sinodo dei Vescovi, in un intervento che fece
scalpore (e creò un certo e non nascosto disagio nella curia romana): «Siamo
indotti a interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano
II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la
coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto
collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali
emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione di quanto
sarebbe bello e utile per i Vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa
ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella
esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro
predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più
memoria viva se non per pochi testimoni».
HO FATTO UN SOGNO
Richiamando alla memoria il cardinale Basil Hume, arcivescovo di
Westminster, che era intervenuto durante un Sinodo con le parole: «I had
a dream», «Ho fatto un sogno», il cardinal Martini disse: «Anch’io
in questi giorni, ascoltando gli interventi, ho avuto un sogno, anzi
parecchi sogni. Ne richiamo tre. 1. Anzitutto il sogno che, attraverso
una familiarità sempre più grande degli uomini e delle donne europee con
la Sacra Scrittura, letta e pregata da soli, nei gruppi e nelle
comunità, si riviva quella esperienza del fuoco nel cuore che fecero i
due discepoli sulla strada di Emmaus. Anche per la mia esperienza, la
Bibbia letta e pregata, in particolare dai giovani, è il libro del
futuro del continente europeo. 2. In secondo luogo, il sogno che la
parrocchia continui ad attualizzare, col suo servizio profetico,
sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri
territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione
del pane. In questo Sinodo sono già state spese parecchie parole per
evidenziare il ruolo dei movimenti ecclesiali in ordine alla
vivificazione spirituale dell’Europa. Ma è necessario che i membri dei
movimenti e delle nuove comunità si inseriscano vitalmente nella
comunione della pastorale parrocchiale e diocesana, per mettere a
disposizione di tutti i doni particolari ricevuti dal Signore e per
sottoporli al vaglio dell’intero popolo di Dio. Dove questo non avviene,
ne soffre la vita intera della Chiesa, tanto quella delle comunità
parrocchiali quanto quella degli stessi movimenti. Dove invece si
realizza una efficace esperienza di comunione e di corresponsabilità la
Chiesa si offre più facilmente come segno di speranza e proposta
credibile alternativa alla disgregazione sociale ed etica da tanti qui
lamentata. 3. Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di
Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per
ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, una esperienza di
confronto universale tra i Vescovi che valga a sciogliere qualcuno di
quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in
questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul
cammino delle Chiese europee e non solo europee. Penso in generale agli
approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del
Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di
ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di
provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero
di ministri del vangelo e dell’eucarestia. Penso ad alcuni temi
riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la
partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la
sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i
rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il
bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra
democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. (…) Alcuni di
questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più
universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con
libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto
dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità
intera».
LO SGUARDO DEL PROFETA
Nell’ultima intervista, rilasciata a padre Georg Sporschill, il
confratello gesuita che lo intervistò in “Conversazioni notturne a
Gerusalemme”, e a Federica Radice, il cardinal Martini con grande
franchezza ha riconosciuto che la Chiesa è stanca, nell’Europa del
benessere e in America. «La nostra cultura è invecchiata, le nostre
Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato
burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono
pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (…) Il
benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se
ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo
so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però
potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come
lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove
sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo
limitarli con i vincoli dell’istituzione». E con coraggio aggiunse: «La
chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo
paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della
Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e
dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno
sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che
ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo
l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per
te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?». Con ragione, dunque, il
cardinal Ravasi in un’intervista alla Radio Vaticana il giorno dopo
l’annuncio della morte di Martini ha detto: «Lo sguardo di Martini
era certamente tendenzialmente uno sguardo verso l’oltre, che cercava di
individuare i percorsi futuri. In questo senso, si può dire veramente
che la sua funzione fosse “profetica”, e profeta di per sé è colui che è
ben piantato nella Storia e ne intuisce i movimenti, le tensioni».