Quando Luciano Manicardi nel gennaio
del 2017 è stato scelto dalla comunità come priore, ho subito pensato
che gli sarebbe rimasto poco tempo per scrivere e pubblicare testi. Così
è stato, anche perché la comunità di Bose che presiede, composta da una
novantina di fratelli e sorelle che vivono attorno alla cascina
originaria della frazione di Magnano posta poco oltre il crinale della
serra morenica, ma anche ad Assisi, a San Gimignano, ad Ostuni e a
Civitella San Paolo, alle porte di Roma, chiede tempo e cura. E Luciano
Manicardi, che conosco da trent’anni, è un uomo che ha sempre creduto
nel valore della cura e delle relazioni. Avendolo ascoltato molte volte,
rimango ogni volta colpito dalla sua capacità di intrecciare il dato
biblico (che ben padroneggia) con i suoi studi di psicologia e di
antropologia e con le molte letture che, almeno fino a quel famoso
gennaio, custodiva e alimentava con regolarità e passione. Per questo
ogni qualvolta esce un suo testo cerco di leggerlo. Così è stato per
“Spiritualità e politica” (Edizioni Qiqajon, 2019) e ora per questo
prezioso libretto da poco dato alle stampe, “Fragilità” (edizioni
Qiqajon, 10 euro, e-book 6,99). Un testo pubblicato nei giorni della
pandemia anche se a tema non vi è il coronavirus. Eppure un testo
utilissimo per decifrare con lucidità questo tempo e le sfide del “nuovo
inizio” a cui saremo – come persone e come civiltà – inevitabilmente
chiamati a vivere.
Hai scritto un testo sulla fragilità dove già nelle prime
pagine si viene invitati a diffidare dalla retorica o dall’esaltazione
della fragilità. Eppure molta tradizione cristiana si è poggiata a lungo
su questo…
Mai come oggi, in questi tempi di pandemia, possiamo cogliere la
dimensione onnipervasiva della fragilità. Semplicemente, essa è costitutiva della condizione umana e abita ogni realizzazione umana,
abita la natura come la cultura, riguarda la salute come le condizioni
economiche, il lavoro e le imprese, le relazioni interpersonali, sociali
e politiche, riguarda la natura e la cultura. Tutto può spezzarsi, a
seguito di un lungo processo di erosione, oppure improvvisamente, come
l’epidemia di coronavirus ci mostra. Al tempo stesso, non mi pare
sensato scrivere elogi della fragilità proprio perché essa è una realtà
di fatto, è già lì, mentre è la fortezza, la fortitudo, una virtù che va costruita giorno dopo giorno. E va costruita proprio partendo dall’assunzione della fragilità.
La fragilità ci riguarda, ne siamo impastati. Eppure oggi, anche a livello personale, è difficile fare i conti con essa.
Noi tendiamo a rimuoverla e a dimenticarla anzitutto per motivi
culturali, in quanto la fragilità contraddice l’immagine di forza,
potenza, successo, “infrangibilità” che deve contraddistinguere una vita
umanamente riuscita secondi i parametri mondani correnti. Ma anche
psicologicamente la fragilità è temuta e spesso rimossa perché il
toccarla, il prenderne atto, produce una sofferenza troppo grande e
costituisce una ferita narcisistica. Il prendere atto della concreta
fragilità che ci abita ci costringe a rinunciare ai sogni di onnipotenza
in cui spesso prolunghiamo il nostro narcisismo infantile. E appunto,
una delle lezioni che l’epidemia ci sta insegnando è quella della nostra
non-onnipotenza.Ci sta insegnando la lezione
dell’imponderabile, dell’imprevedibile e dunque ci invita all’umiltà
della conoscenza. Una conoscenza adeguata deve mettere in conto l’imprevedibile. Per dirla con Edgar Morin, maestro del pensiero della complessità ampiamente ripreso nella Laudato si’ di papa Francesco, “la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze”.
Tu scrivi che la fragilità resta il luogo di giudizio della
nostra pratica di umanità. E’ un appello, una domanda, che mette in
gioco la cura e la responsabilità. Tu sostieni l’urgenza di un’“etica
della fragilità”. Che dovrebbe strutturarsi in che modo?
L’etica della fragilità si radica nell’empatia. In quel movimento di
immedesimazione e rispecchiamento che ci porta a sentire come nostra la
sofferenza o la fragilità dell’altro. Gli atteggiamenti richiesti da un’etica della fragilità sono poi almeno questi due: da un lato, il riconoscimento della fragilità che ci abita che ci consente di accogliere anche la fragilità che abita negli altri;dall’altro, la cura delle persone ferite dalle fratture che la fragilità provoca. Questo il potenziale umanizzante insito nella fragilità.
Fai un esempio..
Di fronte allo straniero, al migrante che, fuggendo da storie di
sofferenza e disumanità, di povertà e di guerra, giunge nelle nostre
terre ignorandone cultura, lingua, usi, ed essendo diverso per costumi e
religione, o si entra in un dinamismo virtuoso di empatia per cui
“sento” che la sua stranierità, con le fragilità connesse, è anche la
mia e abita in me, e allora non sono spinto a odiare in lui ciò che vedo
in me, o altrimenti il rischio è che la fragilità dell’altro non dia
origine a nessuna risposta etica ma a risposte sadiche, violente,
disumane.
Lo sguardo è decisivo. Il rischio dell’uomo di sempre è di
togliere il volto, di cancellare l’unicità. Se questo accade, e lo
abbiamo visto spesso negli ultimi tempi, a prevalere è il disprezzo,
l’odio.
Uno sguardo umano ed etico sulla fragilità coglie la precarietà e anche la preziosità del volto segnato dal male, del corpo ferito, della storia spezzata e se ne sente interpellato e chiamato in causa. Chi guarda umanamente la fragilità scopre che la fragilità lo riguarda.
L’odio, invece, non vede il volto, ma una massa indistinta, così che
riesce a odiare gli immigrati, i musulmani, gli ebrei, e così via: non
esiste più l’individualità dell’altro, non esiste più il suo volto, vera
icona del trascendente nel mondo. Il volto, infatti, è luogo essenziale
di cristallizzazione dell’identità. Il volto è epifania dell’umanità dell’uomo,
della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è
simultanea alla sua vulnerabilità. La pelle del volto è quella che resta
più nuda, più spoglia. E gli occhi, specchio dell’anima, ne sono la
parte ancora più indifesa, più fragile, che invita, per la sua stessa
fragilità ed esposizione alle ingiurie esterne, ad averne rispetto e
cura.
Insieme però dici che della fragilità si può fare buon uso.
Ciò che conferisce alla fragilità non sono i suoi limiti ma il posto che
i suoi limiti lasciano all’uomo per amare. E’ lo spazio della libertà.
Che non è automatico o spontaneo. Come educarsi a questo?
Un’espressione di Cicerone rappresenta bene un uso sapiente della
fragilità. Nel suo trattato sull’amicizia, Cicerone scrive: “Poiché le
cose umane sono fragili e caduche dobbiamo sempre cercare qualcuno da
amare e da cui essere amati. Tolti infatti l’affetto e la benevolenza,
ogni gioia è sottratta alla vita”. La fragilità è lo spazio, l’ambito al
cui interno avviene la costruzione della nostra umanità. Così come la
fragilità delle cose umane è stata l’ambito all’interno del quale Gesù
ha costruito la sua umanità e la sua pratica dell’amore, giungendo
perfino ad amare il nemico. Questo spazio è quello della libertà e anche della responsabilità.
Educarsi a questo è educarsi a quell’etica della cura che comporta
l’assunzione della compassione come criterio di giudizio sulla realtà:
nella compassione vi è infatti il giudizio di gravità (vedo la
situazione di debolezza, di sofferenza grave di una persona e non ne
resto indifferente), vi è il giudizio di non colpa (l’altro è vittima,
non colpevole), vi è il giudizio eudaimonistico (l’altro e il suo bene è
un fine decisivo per la mia realizzazione umana).
Nella fragilità si cerca di custodire le cose essenziali.
Anche per la comunità cristiana è lo stesso. Cosa è bene – per i
cristiani – custodire gelosamente in questo tempo? Nell’ultimo capitolo
parli di “grazia della fragilità”. Cosa intendi? Qual è stato lo sguardo
di Gesù sulla fragilità?
Dicendo “grazia” intendo che il riconoscimento umile e realistico
della concreta situazione di fragilità propria e altrui, conduce a fare
di questa debolezza un elemento spiritualmente ricchissimo, potentemente
umanizzante. La fragilità diviene creatrice di legami, agisce
come ponte che istituisce rapporti tra diversi. Per quanto
indesiderabile, la fragilità può divenire capace di mobilitare una
società e di creare rapporti di solidarietà e dar vita a istituzioni che
si prendono cura dei più bisognosi. Anche nella crisi del coronavirus
abbiamo visto fiorire il sentimento di solidarietà che si esprime sia in
manifestazioni gratuite, sia in generosità e dedizione e aiuto verso
chi è più bisognoso. Ovviamente, il problema non è la fragilità in sé, ma ciò che se ne fa,
il rapporto che istituiamo con essa, e allora, se riconosciuta e
accettata, diventa fondamento di un agire etico. La fragilità è lo
spazio in cui lo spirito umano può manifestarsi come resiliente,
creativo, geniale. Certo, occorre uno sguardo che, invece di perdersi in
complottismi e dietrologie, cioè cercando, come sempre nelle soluzioni
di tipo moralistico, un colpevole, veda le vittime e si prenda cura di
esse. Come ha fatto Gesù. Il cui sguardo non si è mai posato
anzitutto sul peccato o sulla colpa dell’uomo, ma sulla sua sofferenza. E
da lì è nata la sua azione di cura e di responsabilità per l’umano.