L’anno liturgico si apre all’insegna della vigilanza,
un termine nelle società attuali legato assai più alla sicurezza che
all’attesa. Si vigila contro possibili minacce, e non già per attendere
qualcuno. Per questo motivo al giorno d’oggi la vigilanza è delegata
agli specialisti (i vigilantes). Il Vangelo parla invece di un incontro; per questa ragione il vigilare e il vegliare sono per tutti:
«Quello che dico a voi, lo dico a tutti. Vegliate!» (Mc 13,37). Che sia
una richiesta esigente lo prova lo stesso Vangelo di Marco; basta
infatti passare al capitolo successivo per prendere atto che Pietro, Giacomo e Giovanni nel Getsèmani non ne furono capaci. Ciò avvenne proprio nel momento in cui Gesù innalzava al Padre («Abbà») la sua lacerata preghiera (cf. Mc 14,34-37).
I versetti di Marco sono notturni. Essi infatti elencano, con
scrupolo, le quattro scansioni che nel mondo antico dividevano le ore
poste tra il tramonto e il sorgere del sole (sera, mezzanotte, canto del
gallo, mattino; cf. Mc 13,35). Perché bisogna vegliare?
Perché mai la vita di fede è paragonata alla lotta che si esercita per
non essere vinti dal sonno? Perché occorre restare svegli anche quando
giunge il tempo di dormire? Semplicemente perché è nella notte che la nostra capacità di attendere viene messa alla prova.
La vigilanza evangelica non è dominata dalla paura. Essa richiama piuttosto la premura. Vegliare significa essere attenti, «qui e ora», alle necessità del prossimo.
È quanto non riuscirono a fare Pietro, Giacomo e Giovanni nell’orto
quando furono vinti dal sonno, mentre Gesù era nell’angoscia. Non
bisogna lasciare che fatti e avvenimenti, povertà e dolori ci scorrano
accanto mentre noi dormiamo di un sonno che rende stordito il nostro
cuore. Essere vigilanti comporta accorgerci che altri, oggi, sono nella solitudine e nella disperazione e che forse loro, a differenza di quanto fece Gesù, non hanno più neppure la forza di pregare.
È difficile esserne all’altezza; ci viene chiesto tanto. Nella nostra
vita siamo infatti paragonabili per lo più a Pietro, Giacomo e Giovanni:
dormiamo e lasciamo soli gli altri.
Vigilare significa attendere la venuta del Signore;
tema tanto centrale dell’Avvento, quanto periferico nella nostra vita
di fede. Uno dei motivi per attendere sta nella debolezza della nostra
capacità di condivisione. Siamo chiamati a essere consapevoli di quanto ci manca.
La consapevolezza cresce non già quando si afferma che non c’è più
nulla da fare; al contrario essa non è mai tanto acuta e vera come
quando si sperimenta la comunione. È il «già» a rimandarci al «non
ancora». Nella seconda lettura di oggi si afferma: «La testimonianza di
Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun
carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù
Cristo» (1Cor 1,6-7). Non manca nulla quando attendiamo. È un paradosso:
in virtù di quello che abbiamo, sappiamo quanto ci manca. A riempire di doni (carismi) la nostra vita di fede è l’attesa.
Attendere è uno stile di vita. Più di ogni altro a ricordarcelo è stato Paolo. Egli ci indica un comportamento non appiattito sul presente, perché perennemente aperto al domani di Dio:
«Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi,
quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; quelli che
piangono come se non piangessero; quelli che gioiscono come se non
gioissero (...) passa infatti la figura di questo mondo» (1Cor 7,29-31).
L’attesa sta tutta in quel «come se non». Essa non significa disimpegno, tanto meno comporta una «fuga dal mondo». Si tratta piuttosto di consapevolezza che il domani del nostro comune incontro con Dio è ben più grande
dell’odierno incontro che gli esseri umani hanno con sé stessi e con i
loro simili. Quando le nostre vite non sono avvolte nel sonno, è
l’attesa a dar corpo al nostro «già».
Il vangelo in poche parole