La scena più famosa di tutto il ciclo di
affreschi della Cappella Sistina è forse la creazione di Adamo.
L’attenzione di chi la contempla è subito rapita da quelle mani che si
sfiorano senza toccarsi, dall’indice di Dio teso verso la mano inerte
del primo uomo, nell’incanto dello sbocciare della vita.
Pochi però prestano attenzione all’altra
mano di Dio, la sinistra che, in un tenero abbraccio, avvolge una
stupenda ragazza, la Sapienza che – come dice la Bibbia – era accanto a
lui quando “con intelligenza distendeva i cieli” (Ger 10,12).
Si rimane affascinati dall’armonia del
firmamento e dall’ordine dell’universo e lo sguardo del credente può
cogliere nel creato il progetto sapiente da cui tutto ha avuto inizio.
Può coglierlo perché “in principio” Dio ha operato assistito dalla sua
Sapienza.
Fra le creature che noi conosciamo,
l’uomo è l’unico in grado di comprendere che i cieli non sono solo degli
spazi infiniti e misteriosi, ma sono la realizzazione di un disegno, di
un sogno d’amore.
Gli antichi che sapevano ascoltare il canto delle stelle e godere delle danze celesti degli astri erano forse più uomini di noi.
Il mondo esiste, va studiato e usato, punto e basta – afferma lo scienziato.
È vero: non c’è bisogno di Dio per capire le leggi che regolano l’universo.
Ma, se rinunciamo a cercare il senso del creato, se rinunciamo a cogliere la Sapienza con cui è stato fatto, siamo uomini?
Tutti gli autori curano con particolare
impegno la prima pagina dei loro libri perché costituisce il foglio di
presentazione di tutta l’opera. Deve essere non solo piacevole e
accattivante, ma è bene che accenni anche ai temi essenziali che
verranno trattati in seguito. È un modo per stuzzicare l’interesse e la
curiosità del lettore.
Per introdurre il suo Vangelo, Giovanni
compone un inno così sublime, così elevato da meritargli, giustamente,
il titolo di “aquila” fra gli evangelisti. In questo prologo, come
nell’“ouverture” di una sinfonia, è possibile cogliere i motivi che
saranno poi ripresi e sviluppati nei capitoli successivi: Gesù inviato
del Padre, sorgente di vita, luce del mondo, pieno di grazia e di
verità, Unigenito nel quale si rivela la gloria del Padre.
Nella prima strofa (vv. 1-5) Giovanni
sembra spiccare il volo da un’immagine cara alla letteratura sapienziale
e rabbinica: la “Sapienza di Dio” raffigurata come una ragazza
incantevole e deliziosa.
Ecco come la “Sapienza” si autopresenta
nel libro dei Proverbi: “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua
attività, prima di ogni sua opera. Quando non esistevano gli abissi, io
fui generata; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle
colline, io sono stata generata. Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando stabiliva al mare i suoi limiti, quando disponeva le fondamenta
della terra, io ero con lui” (Pr 8,22-29).
Si tratta di una personificazione
ripresa anche nel libro del Siracide, dove si afferma che la Sapienza si
è come incarnata nella Toràh, nella Legge, e ha fissato la sua tenda in
Israele (Sir 24,3-8.22).
Giovanni conosce bene questi testi e –
forse anche con un filo di polemica nei confronti del giudaismo – li
riprende e li applica a Gesù.
È lui – dice – la Sapienza di Dio
venuta a porre la sua tenda in mezzo a noi, è lui, e non la legge
mosaica, che rivela agli uomini il volto di Dio e la sua volontà. Egli è
il Verbo, la Parola ultima e definitiva di Dio, è quella stessa Parola mediante la quale Dio, in principio, ha creato il mondo.
Non solo. A differenza della Sapienza
personificata (Sir 24,9), la Parola di Dio – che in Gesù si è fatta
carne – non è stata creata, ma “era” presso Dio, esisteva dall’eternità
ed era Dio.
Per Israele la Sapienza è “un albero di
vita per chi ad essa si attiene” (Pr 3,18). Giovanni chiarisce: la
Sapienza di Dio si è manifestata pienamente nella persona storica di
Gesù. È lui, non più la Legge, la sorgente della vita.
La venuta di questa Parola nel mondo
divide la storia in due parti: prima e dopo Cristo, tenebre senza di
lui, luce dove c’è lui. Parola che, come una spada, penetra nell’intimo
di ogni uomo e separa in lui ciò che è “figlio della luce” da ciò che è
“figlio della tenebra”. La tenebra cercherà di sopraffare questa luce,
ma non vi riuscirà. Anche la risposta negativa dell’uomo non potrà
soffocarla e alla fine la luce avrà la meglio nel cuore di ognuno di
noi.
La seconda strofa (vv. 6-8) è un primo
intermezzo narrativo che introduce la figura del Battista. Di lui non si
dice che “era presso Dio”. Giovanni è un semplice uomo suscitato da Dio
per una missione. Doveva essere il testimone della luce. Il suo ruolo è
tanto importante che viene sottolineato per ben tre volte.
Egli non era la luce, ma seppe riconoscere la luce vera e indicarla a tutti.
La terza strofa (vv. 9-13) sviluppa il tema di Cristo-luce e la risposta degli uomini di fronte al suo apparire nel mondo.
L’inno si apre con un grido di gioia:
“Veniva nel mondo la luce vera”. Gesù è la luce autentica, in
contrapposizione ai luccichii illusori, ai fuochi fatui, ai miraggi, ai
bagliori ingannevoli proiettati dalla sapienza degli uomini.
A questo grido entusiastico si
contrappone però subito un lamento: “il mondo non lo riconobbe”. È il
rifiuto, l’opposizione, la chiusura alla luce. Gli uomini preferiscono
l’oscurità perché affezionati alle loro opere malvagie (Gv 3,19).
Neppure gli israeliti – “la sua gente” –
la accolgono. Eppure avrebbero dovuto riconoscere in Gesù la
manifestazione ultima, l’incarnazione della “Sapienza di Dio”, di quella
Sapienza che “fra tutti i popoli aveva cercato un luogo di riposo nel
quale stabilirsi” e proprio in Israele aveva trovato la sua dimora. Il
Creatore dell’universo le aveva dato quest’ordine: “Fissa la tua tenda
in Giacobbe e prendi in eredità Israele” (Sir 24,7-8).
Sorprende il rifiuto della luce e della
vita da parte degli uomini, anche dei più preparati e ben disposti.
Anche Gesù si meraviglierà un giorno dell’incredulità dei suoi stessi
conterranei (Mc 6,6). Questo significa che la luce che viene dall’alto
non si impone, non fa violenza, lascia liberi, ma pone di fronte ad una
decisione ineludibile: bisogna scegliere fra “benedizione e maledizione”
(Dt 11,27), fra “ vita e morte” (Dt 30,15).
La strofa si conclude con la visione
gioiosa di coloro che hanno creduto nella luce. Credere non significa
dare il proprio assenso intellettuale ad un pacchetto di verità, ma
accogliere una persona, la Sapienza di Dio che si identifica con Gesù.
A coloro che si fidano di lui viene
concesso “un diritto” inaudito: divenire figli di Dio. È la rinascita
dall’alto di cui Gesù parlerà a Nicodemo (Gv 3,3), rinascita che non ha
nulla a che vedere con la nascita naturale che è legata alla sessualità,
al volere dell’uomo. La generazione da Dio è di un altro ordine, è
opera dello Spirito.
La quarta strofa (v. 14): “E il
Verbo si fece carne e fissò la sua tenda in mezzo a noi”. È il punto
culminante di tutto il prologo e sono le parole del Vangelo che oggi
ascolteremo in ginocchio. Sono ancora cariche dell’ammirazione gioiosa e
stupita dei cristiani delle prime comunità di fronte al mistero di Dio
che per amore si spoglia della sua gloria, annienta se stesso e prende
dimora sotto la nostra tenda.
“Carne” nel linguaggio biblico indica
l’uomo nel suo aspetto di essere debole, fragile, perituro. Si
percepisce qui la drammatica contrapposizione fra “carne” e “Parola di
Dio” espressa in modo così efficace nel famoso testo di Isaia: “Ogni
carne è come l’erba e tutta la sua gloria è come il fiore del campo.
Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per
sempre” (Is 40,6-8).
Quando Giovanni dice che la “Parola”
divenne carne non afferma semplicemente che prese un corpo mortale, che
si rivestì di muscoli, ma che divenne uno di noi, che si fece in tutto
simile a noi (compresi i sentimenti, le passioni, le emozioni, i
condizionamenti culturali, la stanchezza, la fatica, l’ignoranza – sì,
anche l’ignoranza – e poi le tentazioni, i conflitti interiori…). In
tutto simile a noi fuorché nel peccato.
“E noi vedemmo la sua gloria”. L’uomo
biblico era cosciente che l’occhio umano è incapace di vedere Dio. Di
lui si può solo contemplare la “gloria”, cioè, i segni della sua
presenza, le sue opere, i suoi gesti di potenza in favore del suo
popolo: “Dimostrerò la mia gloria sul faraone e su tutto il suo
esercito, i suoi carri e i suoi cavalieri” (Es 14,17).
Si sentono riecheggiare in questa frase
del prologo le espressioni colme di intensa commozione della prima
lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo
udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il
Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo
veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna,
che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo
veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi. Queste cose vi scriviamo,
perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1, 1 -4).
Giovanni parla al plurale perché intende
riferire l’esperienza dei cristiani delle sue comunità che, con lo
sguardo della fede, sono riusciti a cogliere, al di là del velo della
“carne” di Gesù umiliato e crocifisso, il volto di Dio.
Il Signore ha manifestato spesso la sua
gloria con segni e prodigi, ma mai si era rivelato in modo così chiaro e
palese come nel suo “Unigenito, pieno di grazia e di verità”. “Grazia e
verità” è un’espressione biblica che significa “amore fedele”. La
troviamo nell’AT quando il Signore si presenta a Mosè come “il Dio
misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà”
(Es 34,6). In Gesù è presente la pienezza dell’amore fedele di Dio. Egli
è la dimostrazione inconfutabile che nulla potrà mai sopraffare la
benevolenza di Dio.
La quinta strofa (v. 15) è il secondo
intermezzo. Ricompare il Battista e questa volta egli parla al presente:
“rende testimonianza” in favore di Gesù. “Grida” agli uomini di tutti i
tempi che egli è unico.
La sesta strofa (vv. 16-18) è un canto
di gioia dal quale trabocca la riconoscenza a Dio della comunità per il
dono ricevuto. Dono incomparabile. Anche la legge di Mosè era un dono di
Dio, ma non era definitiva. Le disposizioni esterne che essa conteneva
non erano in grado di comunicare “la grazia e la verità”, cioè, la forza
che permette all’uomo di corrispondere all’amore fedele di Dio. La
“grazia e la verità” sono state donate per mezzo di Gesù. Compare qui,
per la prima volta, il suo nome.
Dio nessuno l’ha mai visto. È
un’affermazione che Giovanni richiama spesso (5,37; 6,46; 1 Gv 4,12.20).
La si ritrova già nell’AT: “Tu non potrai vedere il mio volto – dice
Dio a Mosè – perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20).
Le manifestazioni, le apparizioni, le
visioni di Dio raccontate nell’AT non erano delle visioni materiali,
erano un modo umano di descrivere le rivelazioni dei pensieri, della
volontà, dei progetti del Signore.
Ora invece è possibile vedere realmente,
concretamente Dio osservando Gesù. Per conoscere il Padre non si devono
fare ragionamenti filosofici o perdersi in sottili disquisizioni. Basta
contemplare Cristo, osservare quello che fa, cosa dice, cosa insegna,
come si comporta, come ama, chi preferisce, chi frequenta, da chi va a
cena, chi sceglie, chi rimprovera, chi difende. Basta, soprattutto,
contemplarlo nel momento più alto della sua “gloria”, quando viene
innalzato sulla croce. In quella manifestazione somma di amore il Padre
ha detto tutto.
Il vangelo in poche parole