Raccontavano i rabbini che un
agricoltore aveva piantato nel suo campo ogni sorta di alberi e li aveva
coltivati con cura; attese molte primavere e molte estati, ma rimase
deluso: tante foglie, qualche fiore, ma nessun frutto. Stava per
appiccare il fuoco al campo quando, su un ramo un po’ discosto, vide una
melagrana. La colse e la assaggiò: era deliziosa. “Per amore di questo
melograno – esclamò felice – lascerò vivere tutti gli altri alberi del
mio giardino”. Similmente – concludevano i rabbini – per amore di Israele Dio salverà il mondo.
Non tutti i giudei però condividevano
l’apertura mentale di questi rabbini illuminati. La maggioranza riteneva
che una sola era la stirpe eletta e santa e che i pagani dovevano
essere evitati come immondi e reietti (At 10).
È con questo esclusivismo che si dovette
confrontare la prima comunità cristiana spuntata, come virgulto
rigoglioso, dal ceppo d’Israele.
I cristiani si interrogavano: la salvezza è destinata a tutti i popoli o è riservata ai figli di Abramo?
Nacquero dissensi, dissapori, aspri
conflitti che divisero la chiesa (1Cor 1,10-12; Gal 2,11-14). Alcuni
sostenevano che il vangelo doveva essere annunciato solo agli israeliti
e, per avvalorare la loro tesi, si richiamavano al comportamento di Gesù
che, durante la sua vita pubblica, aveva svolto la sua missione entro i
confini della Palestina; ricordavano anche la sua raccomandazione: “Non
andate fra i pagani, non entrate nelle città dei samaritani;
rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute del popolo d’Israele” (Mt
10,5-6).
Altri coltivavano idee più aperte,
convinti com’erano che, sì, il vangelo doveva essere predicato anzitutto
agli israeliti – primi destinatari della salvezza (Mt 22,1-6) – ma poi
anche i pagani dovevano essere ammessi nella sala del banchetto del
regno di Dio (Mt 22,8-10). Israele era “il primogenito” del Signore (Sir
36,11), ma non “l’unigenito”: Dio aveva sempre considerato suoi figli
anche gli altri popoli (Ger 3,19). L’ordine del Risorto era stato
inequivocabile: “Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro
ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20).
A causa del breve tempo (forse soltanto
tre anni) della vita pubblica, Gesù aveva limitato la sua missione “alle
pecore perdute della casa d’Israele”, ma aveva anche compiuto gesti
chiari per indicare che la sua salvezza era per tutti i popoli.
L’episodio narrato nel vangelo di oggi è uno dei più significativi e
rivelatori al riguardo.
Un giorno si presenta a Gesù una
straniera. Viene dalle regioni di Tiro e Sidone e “continua a gridare”
(si noti l’insistenza della sua preghiera), implorando la guarigione di
sua figlia. Il testo la chiama “cananea”, appartiene dunque ad un popolo
nemico, un popolo pericoloso che più volte ha sedotto Israele, lo ha
fatto deviare dalla retta fede e lo ha indotto ad adorare Baal e
Astarte.
I discepoli di Gesù – israeliti educati
nel più rigoroso integralismo religioso – non possono che rimanere
sorpresi di fronte alla sfrontatezza di questa pagana invadente che osa
rivolgersi al loro Maestro e attendono la sua reazione: si atterrà alle
norme vigenti che proibiscono di intrattenersi con straniere o – come
spesso ha fatto – romperà gli schemi tradizionali?
L’evangelista riferisce il dialogo fra
Gesù e la donna, compiacendosi quasi di sottolineare il tono sempre più
duro delle risposte del Maestro. Di fronte alla richiesta di aiuto della
donna, egli assume un atteggiamento sprezzante: non la degna di uno
sguardo, non le rivolge nemmeno la parola (v. 23). Intervengono allora
gli apostoli che, un po’ infastiditi, vogliono risolvere al più presto
la situazione che rischia di divenire imbarazzante. Gli chiedono di
allontanarla. “Esaudiscila”, – dice il nostro testo – ma non è una
traduzione corretta. “Mandala via!” – è la loro richiesta.
Gesù sembra seguire il loro consiglio,
diviene più severo e spiega: “Non sono stato inviato che alle pecore
perdute della casa d’Israele” (v. 24).
L’immagine del gregge allo sbando
ricorre spesso nell’AT: “Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il
paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” – dichiara Ezechiele
(Ez 34,6) – cui fa eco un altro profeta: “Tutti eravamo sperduti come un
gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada” (Is 53,6). C’è anche la
promessa di Dio: “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Andrò
in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita;
fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e
della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,11.16).
Solo con gli israeliti però il Signore
ha preso impegni, è solo di loro che si deve interessare. Presentandosi
come il pastore d’Israele, Gesù dichiara di voler dare compimento alle
profezie e la donna capisce. Sa di non essere del popolo eletto, è
cosciente di non appartenere al “gregge del Signore” e di non avere
alcun diritto alla salvezza, tuttavia confida nella benevolenza e nella
gratuità degli interventi di Dio, si prostra davanti a Gesù e implora:
“Signore, aiutami!”.
Come risposta riceve un’offesa: “Non è bene prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini!” (v. 26).
Gli israeliti sono il gregge, i pagani sono i cani.
L’uso del diminutivo attenua, ma non di molto, l’asprezza dell’insulto.
“Cane” era, in tutto il Medio Oriente antico, la più pesante delle
ingiurie, era il nomignolo con cui gli ebrei designavano i pagani.
Un’immagine cruda, ripresa in vari testi del NT: “Non date le cose sante
ai cani, né gettate le vostre perle davanti ai porci” (Mt 7,6). “Fuori i
cani!” (Ap 22,15). “Guardatevi dai cani!” (Fil 3,2). Era usata per
mettere in rilievo l’assoluta incompatibilità fra la vita pagana e la
scelta evangelica.
Sulla bocca di Gesù questa espressione
sorprende, soprattutto se si tiene conto del fatto che la donna cananea
si è rivolta a lui con grande rispetto: per tre volte lo ha chiamato
“Signore” – titolo con cui i cristiani professavano la loro fede nel
Risorto – e una volta “Figlio di Davide” che equivale a riconoscerlo
come messia. Sembra che, come tutti i suoi connazionali, anch’egli abbia
in abominio gli stranieri. Ma è così?
La conclusione del racconto ci illumina.
“Donna – esclama Gesù – davvero grande è la tua fede!”. Un elogio che
non è mai stato rivolto a nessun israelita.
Ora tutto diviene chiaro. Ciò che
precede – la provocazione, il disprezzo per i pagani, il richiamo alla
loro impurità e indegnità – non era che un’abile messa in scena. Gesù
voleva che i suoi discepoli modificassero radicalmente il loro modo di
rapportarsi con gli stranieri. Ha “recitato la parte” dell’israelita
integro e puro per mostrare quanto fosse insensata e ridicola la
mentalità separatista coltivata dal suo popolo. Mentre le “pecore del
gregge” si tenevano lontane dal pastore che le voleva radunare (Mt
23,37), i “cani” si accostavano a lui e, per la loro grande fede, ottenevano la salvezza.
Il messaggio è quanto mai attuale: la
chiesa è chiamata ad essere segno che sono finite tutte le
discriminazioni determinate dal sesso, dall’appartenenza a una razza, a
un popolo o a un’istituzione. “Tutti voi siete figli di Dio per la fede
in Cristo Gesù – dichiara Paolo – poiché quanti siete stati battezzati
in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco;
non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete
discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa” (Gal 3,26-29).
La donna cananea – la pagana, la
miscredente – è additata a modello del vero credente: sa di non meritare
nulla, crede che solo dalla parola di Cristo può giungere gratuitamente
la salvezza, la implora e la riceve in dono.
Il vangelo in poche parole