Tutto riprende. Molto va ripensato.
Fermiamoci
Lo stanno chiedendo tanti preti, molti dei quali, dopo i mesi del
coronavirus, vivono con affaticamento il tempo presente. Alcuni di loro
ne sono usciti toccati nel corpo, altri nello spirito.
Tantissimi, hanno provato un inedito senso di isolamento e di
solitudine, accompagnato dalla crescente consapevolezza che gli
strumenti pastorali fino ad ora usati sono inadeguati.
Ciò che è accaduto sta portando a galla una serie di situazioni e di
difficoltà che si conoscevano anche prima: sono state solo rese più
visibili. Burnout, messa in discussione del “ruolo”, senso di
marginalità, scarsa formazione, ingombro di impegni burocratici, sono
solo una serie delle tante questioni che investono tanti preti, anche della nostra diocesi, e che bene ha riassunto qualche settimana fa don Alberto nella sua rubrica.
Un tempo di ripensamento. Vero
Vero, non fittizio. Un esempio: nelle prossime settimane, dappertutto
ripartirà la catechesi. Da anni, da più parti, si sta sostenendo
l’insostenibilità del modello fino ad oggi proposto. Che facciamo? Ripartiamo allo stesso modo? Investiamo
tempo ed energie verso una proposta di iniziazione cristiana che, lo si
vede più o meno dappertutto, non “inizia” più?
Serve un tempo in cui rimettere al centro poche, pochissime cose e lavorare solo su quelle.
Non è forse venuto il tempo di setacciare tra le molte cose quelle
che veramente contano? Cosa è davvero essenziale per la vita
cristiana? Quali sono nella vita di un prete e di una comunità? Siamo
capaci di fare un elenco e muoverci di conseguenza?
Serve un tempo in cui riconoscere l’azione dello Spirito che non definisce i confini ma attraversa soglie.
L’ansia del fare, dell’organizzare, del riempire, del portarsi dietro
ogni anno azioni e impegni dell’anno precedente, hanno intasato non solo
l’agenda ma anche la vita di tanti preti.
Ancora troppo clericalismo
Serve andare oltre un clericalismo ancora troppo imperante. Evitando
la retorica che abbonda. A parole, si mette grande enfasi sullo “spazio
ai laici”. Nei fatti, si ha spesso l’impressione che le nostre comunità
si strutturino ancora oggi in modo clericale. Certo non si può negare né
ignorare il retaggio di una lunga storia che ha generato un
clericalismo più preoccupato – direbbe papa Francesco – di dominare gli spazi che di generare processi.
Certo, non si può negare nemmeno che i laici cattolici facciano
fatica ad essere laici adulti (e non fotocopie sbiadite dei preti), non
solo nella fede ma anche nella cultura.
Però da qualche parte bisogna partire e qualche segnale bisogna
darlo. Perché la questione del laico è al cuore delle sfide pastorali
prossime che le nostre comunità parrocchiali devono affrontare. Perché la questione del laico è la questione del cristiano,
che, in forza del battesimo, appartiene al popolo di Dio. Più volte
papa Francesco ha affermato che la nostra prima e fondamentale
consacrazione affonda le sue radici nel Battesimo. Nessuno è stato
battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno
indelebile che nessuno potrà mai cancellare.
Si inizia a parlare dei preti e si finisce a parlare dei
laici. Perché nel tempo che verrà, e che è appena dietro l’angolo, sarà più opportuno parlare di comunità cristiana,
nella ricchezza e nella diversità dei carismi. Donne e uomini che con
coraggio sanno guardare in profondità la crisi e coglierla come un’opportunità straordinaria per ridire l’unica cosa che i cristiani hanno di prezioso: l’umanità del Vangelo.