Il tweet di Enzo Bianchi mi aveva colto di sorpresa: “Era un vero
cristiano, mite, buono, paziente! Per me un amico consonante sempre!”.
Ci avevo messo un po’ a riprendermi. Il breve messaggio del priore di Bose annunciava la morte di Christian Albini, morto improvvisamente, a 43 anni, il 9 gennaio 2017.
Un amico, mai incontrato in carne e ossa! Ci scambiavamo pensieri e
parole, condividevamo le cose belle, in particolare le sue, che
raccontava sul blog “sperare per tutti”, per me certamente il più
riuscito fra tutti quelli della galassia cattolica.
Sperare per tutti è una delle ultime opere del grande
teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), una mente
enciclopedica, che spaziava nella letteratura, nella filosofia e
nell’arte in cui la ragione non erano mai dissociati dalla fede.
Cosi Christian aveva spiegato parecchi anni fa la ragione del nome del blog. E continuava:
Sperare per tutti” è il biglietto da visita del
pellegrino verso l’altrove a cui tutti tendono per “incontrarsi senza
condannarsi.
L’umano, laboratorio di verifica della fede cristiana
Marito, padre di tre figli ancora piccoli, teologo raffinato, anima
del Centro di Spiritualità della diocesi di Crema, collaboratore della
rivista Jesus e di tante altre, autore di numerosi testi, appassionato
di Charles de Foucauld e Dietrich Bonhoeffer, Hannah Arendt e Thomas
Merton, Christian ha preso sul serio la vicenda umana,
con le sue domande e i suoi problemi, intrecciando un dialogo profondo
con tanti non credenti. Capace di stare sulla soglia, cercando di
comprendere, non nascondendosi mai di fronte ai problemi, lanciando
ponti senza rinunciare alla fedeltà ai valori continuamente riscritti e
ridetti con intelligenza, custodendo la tenerezza come chiave di
accoglienza dell’uomo del nostro tempo. Un credente che ha fatto
dell’umano il laboratorio di verifica della sua fede. Anche nel tempo
della prova. Da parecchi anni conviveva con un tumore e nel blog aveva
scritto che la malattia poteva essere accolta come “un tempo per vivere”
e non per morire. In uno dei suoi ultimi post, durante il tempo in cui
aveva scoperto la malattia era arrivata velocemente ad aggredire anche i
polmoni, aveva scritto:
Possiamo perdere tutto, essere frantumati nel corpo e
nello spirito, ma possiamo permanere nella dignità che è uno dei tratti
del nostro essere umani.
L’ultimo, pubblicato quattro giorni prima della sua morte, lo ha titolato “Solitari nella speranza”. E cosi ha scritto:
Nella pace mi corico e presto mi addormento
solitario nella speranza mi fai riposare, Signore (Sal 4,9).
La pace spesso non c’è. Vivere è anche lottare per
conservare la speranza. Soli con la speranza (…). La battaglia della
fede è anche perseverare a sperare, anche quando la speranza è un filo
esile o manca del tutto.
Non è faccenda solo di preti
In una recente intervista al settimanale Credere che, nel titolo lo definiva “Il teologo con i piatti da lavare”, Christian aveva sostenuto:
La riflessione teologica in Italia non può continuare a
essere una cosa che interessa solo i preti, anzi, direi una parte
piuttosto elitaria dei preti. Dovrebbe invece rientrare a pieno titolo
nella comunicazione e nel dibattito pubblico. Parlare di teologia non vuol dire solo occuparsi di Dio e della Chiesa ma anche dell’umano.
Vedere come la fede in Dio e il vissuto della Chiesa hanno a che fare
con l’esistenza nei suoi aspetti personali ma anche pubblici e sociali.
Penso che l’assenza della teologia dalla cultura italiana renda entrambe
più povere (Credere, aprile 2016).
Lo ha ribadito nell’ultimo, magnifico, articolo mandato a Jesus.
Parlando della scomparsa di Paolo De Benedetti, si è soffermato a
ragionare sugli “irregolari”.
Con questo termine intendo quelle persone, soprattutto
semplici battezzati, che all’interno della Chiesa cattolica non hanno
seguito i cammini definiti e strutturati che interessano soprattutto
presbiteri e religiosi, ma che riescono comunque a ritagliarsi con
serietà e fatica un proprio ruolo e a costruire una propria
autorevolezza. Magari scomoda e non sempre universalmente riconosciuta,
ma reale. Sergio Quinzio è un altro nome a cui penso spontaneamente. Il
“marrano” De Benedetti è stato sicuramente uno di questi irregolari e la
sua refrattarietà a tutte le etichette ne è la palese dimostrazione.
L’esistenza di persone così, e di altri che magari non sono mai riusciti
a trovare un proprio posto nella Chiesa, pone una questione: lo scarso investimento sulle vocazioni laicali
che – a parte l’accompagnamento al matrimonio e pochi altri momenti –
sono lasciate molto a se stesse. Coloro che hanno sensibilità
particolari le devono coltivare spesso a livello individuale.
Pensiamoci.