Tre
parabole e quattro dispute. È difficile non notare questi schemi
numerici all’interno dei cinque discorsi su cui i redattori han
costruito l’opera matteana. È come se essi procedessero dando un
ordine sistematico alla narrazione, con espedienti validi anche dal
punto di vista della memorizzazione
del
racconto.
Il nostro lezionario non include la disputa con i
sadducei sulla risurrezione (cf. Mt 22,23-33), di cui si legge la
versione di Luca (cf.20,27-40) nella XXXII domenica dell’anno C, ma
passa subito alla terza disputa, quella con
i farisei. Il che permette una lettura congiunta con la
prima disputa, non per svalutare quella intermedia sulla
risurrezione, ma per cogliere un’ulteriore connessione interna. La
prima disputa infatti si era conclusa con una risposta
interlocutoria: è chiaro che cosa si possa e debba restituire a
Cesare, ma resta da capire che cosa restituire a Dio e come.
Chiedendo ora quale sia «un comandamento grande»
(senza articolo, v. 36) il fariseo pone una domanda reale e concreta,
secondo Matteo. Diversa è la situazione in Luca, in cui la domanda
fa da sfondo alla parabola del buon samaritano. Luca inoltre presenta
lo scriba come una persona poco leale, a differenza ancora di Marco,
in cui Gesù ne approva l’assennatezza. La domanda nasce dal fatto
che ci sono molti precetti, alcuni più pesanti e
altri meno grevi. Gesù stesso considera che alcuni siano «minimi»
(Mt 5,19), eppure da osservare. Si tratta di discernere se ce ne sia
uno che sia, per così dire, il
precetto per antonomasia. Gesù risponde citando dapprima
l’inizio dello Shemà Israel (Dt 6,4) – un testo di cui
conosciamo l’importanza, perché, recitato quotidianamente come
professione di fede, entrava – ed entra ancora oggi – a pieno
titolo nella preghiera che egli e il fariseo stesso praticavano.
Certamente, come tutta la Torah, anche questo testo è donato da Dio
e gli viene restituito pregando, e questa è già una prima risposta
alla domanda su ciò che è da rendere a Dio di domenica scorsa. Il
fariseo restituisce la Torah a colui che l’ha data e che fa di lui
stesso una compiuta immagine di Dio. Al testo del Deuteronomio è
unito Lv 19,18, come fosse la seconda tavola del patto. Del resto la
fede di Israele si verifica nella concretezza di rapporti sociali
leali e onesti. Questa è la giustizia che deve essere di questo
mondo (De Cesare) o, per dirla con l’Apostolo, la fede che
si rende operante nella carità (cf. Gal 5,6) realizzando
così la totale restituzione a Dio di ciò che è suo. Non a caso il
redattore mette l’articolo nella risposta e aggiunge l’aggettivo
«primo» a «comandamento», aggettivo che non era presente nella
domanda (v. 38), quasi a dire che viene individuato ciò che è
irrinunciabile e che riesce a compendiare tutta la Torah. Quanto al
secondo comandamento, esso è sullo stesso piano (v. 39): due tavole
e un unico patto stipulato su di esse. O, come è stato detto, «due
cardini» a cui è sospesa una porta (Bauer): la
Torah e i Profeti sono appesi e girano su questi cardini e
si aprono come porta della vita. Gesù stesso, in linea con quanto
proclamato nel Discorso sul monte, non vuole portare contenuti nuovi.
Nuovo semmai è solo il richiamo ai Profeti, anziché alla sola Torah
– richiamo che, in qualche modo, accenna al canone scritturistico
–, evocando la realtà di un’alleanza mai revocata. Se il primo
comandamento realizza l’incontro tra Dio e uomo, l’aggiunta del
secondo, che gli è simile, realizza l’incontro tra uomo e uomo,
compiendo ciò che è sotteso dal monoteismo biblico: un Dio unico ed
esclusivo che coinvolge totalmente la vita, esigendo un uomo che gli
stia davanti in una relazione amicale e, al tempo stesso, un’umanità
senza caste, in relazione reciproca, retta da una legge in cui tutti
possono ritrovarsi. Il colloquio tra Gesù e il fariseo, nella sua
brevità, è ricco di implicazioni. In qualche modo induce
all’approfondimento continuo e a non cadere nella trappola
dei moralismi che si fermino alla prima lettura.
Il vangelo in poche parole