Due settimane fa la liturgia dell’Ascensione ci aveva fatto leggere
la chiusa canonica del Vangelo di Marco (16,15-20); oggi, domenica della
Trinità, proclamiamo gli ultimi versetti di Matteo. Nell’uno e nell’altro caso i testi, in ambito liturgico, non vanno compresi in senso rigorosamente esegetico.
Eppure, in relazione al Vangelo di oggi, la filologia
non va accantonata: è questione di comprensione, non di erudizione.
Nell’attuale versione CEI (2008) la chiusa del Vangelo di Matteo suona
così: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli
battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt
27,19). Nella precedente versione (CEI 1971) invece si leggeva: «Andate
dunque ammaestrate tutte le nazioni battezzandole nel nome...». La precedente traduzione era sbagliata, l’attuale è ambigua.
Una resa letterale dal greco suona così: «Andate dunque ammaestrate tutte le genti (ta ethnē) battezzandoli (baptizontes autous) nel nome...» (tale versione era peraltro pienamente recepita dalla Vulgata
letta per molti secoli nelle chiese: «docete omnes gentes, baptizantes
eos...»). Va da sé che si battezzano anche le donne, eppure qui è
proprio un maschile non inclusivo ad aprirci la via alla comprensione.
In sostanza, coloro che sono battezzati non si identificano con le genti.
Gli undici discepoli sono invitati a rivolgere il proprio insegnamento a
tutti, ma si battezza solo chi liberamente accetta di aderire alla
fede. Secondo la parola neotestamentaria non si battezzano perciò le
nazioni; in senso stretto non ci sono dunque popoli che, in quanto tali,
sono fatti cristiani. Il battesimo è la conseguenza di una scelta di fede.
Ai nostri giorni, in cui il pluralismo sia religioso sia areligioso è
diventato esperienza quotidiana, il versetto torna ad assumere una
centralità perduta nell’epoca del «regime di cristianità».
La domanda più difficile a cui cercare di rispondere è se ci sia un
nesso tra questa riscoperta del senso del battesimo come espressione di
fede autentica e il fatto che esso sia amministrato nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo. Nella vita delle prime comunità
cristiane, il battesimo veniva conferito nel nome del solo Gesù.
Con quest’espressione però si voleva indicare non tanto una formula
liturgica, quanto il ruolo unico riservato a Gesù Cristo: «Pentitevi e
ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la
remissione dei peccati» (At 2,28; cf. At 8,16; 10,48).
Il riferimento al Padre e allo Spirito nasce a poco a poco come approfondimento della dimensione pasquale.
Scrive Paolo: «Per mezzo del battesimo siamo stati dunque sepolti
insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato da morte
per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in
una vita nuova» (Rm 6, 3-4; cf. Col 2,12; Gal 3,17). La risurrezione
avvenne non solo «per mezzo della gloria del Padre», ma anche per la
forza dello Spirito. Secondo altre parole di Paolo, Gesù «fu costituito
Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della
risurrezione dei morti» (Rm 1,4; cf. 1Pt 3,18).
Il riferimento al Padre e allo Spirito sorge in relazione alla morte e risurrezione di Gesù. «Circa il battesimo (...) battezzate nell’acqua viva, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Didachè,
7,1); questa formula non significa nulla di diverso dal fatto di
compartecipare, attraverso questo rito, alla morte e alla risurrezione
di Gesù Cristo. L’adesione al mistero pasquale esige la fede. Il
battesimo perciò è incompatibile con forme compatte d’identità
collettiva incapaci, per loro natura, di salvaguardare la libertà dello
Spirito. Non si battezzano le nazioni.
Il vangelo in poche parole