Il lebbroso che Gesù reinserisce nel consesso umano è un messaggio attualissimo per noi, tentati in maniera così arrogante e furbesca dalla cultura dello scarto.
Al tempo di Gesù - ma anche nel nostro tempo in tanti Paesi di quello che chiamavamo il Terzo Mondo - il lebbroso era il simbolo dell'emarginato,
dell'escluso, di quello che non si poteva e non si doveva avvicinare,
perché non era soltanto un malato, ma un "impuro", quindi un punito da
Dio per qualche colpa misteriosa. E' molto chiara ed esplicita a
proposito la citazione del Levitico, della Legge di Mosè: «Il
lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto;
velato fino al labbro superiore, andrà gridando: "Impuro! Impuro!". Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento».
Gesù prende le distanze in maniera decisa da questa norma. Incontra
un lebbroso e non soltanto lo fa avvicinare, non soltanto lo guarisce,
ma lo guarisce toccandolo. Poteva guarirlo con la voce, a distanza, come
ha fatto con altri malati. No. Lo tocca. La sua contestazione all'idea
che ci possa essere una creatura "impura", in qualche modo al di fuori
dell'amore di Dio, e quindi non degna di essere avvicinata, accolta,
rispettata, non poteva essere più decisa e netta.
Con un messaggio evangelico così chiaro e forte non si può
accettare nemmeno l'ombra del dubbio che per i cristiani ci possano
"lebbrosi", persone impure, che possano essere lasciate "fuori
dell'accampamento", che possano essere rifiutate, che possano essere
considerate indegne di stare con noi. Eppure, quando dal mondo dei
concetti si passa a quello della vita quotidiana, i dubbi e gli
interrogativi sorgono. Il pensiero, data l'imponenza del fenomeno, corre
subito al problema dei profughi e degli immigrati, e alle
preoccupazioni oggettivamente grandi che suscita, per giunta ingigantite
ed esasperate dagli interessi di bottega dei politici e dei partiti.
Come comportarsi?
Il vangelo in nessun caso può essere preso come un ricettario di
formule pronte all'uso per risolvere i problemi quotidiani. Nemmeno
questo brano, perciò, anche se così concreto ed eloquente, ci offre la
formula né per incoraggiare un'accoglienza buonista e facilona che non
tiene conto delle immancabili conseguenze, né per un comportamento
troppo cauto e restio. Ciò che del vangelo dobbiamo accogliere è il rifiuto, senza se e senza ma, della cultura dello scarto,
che, come continua a martellare papa Francesco, è sempre più forte,
arrogante e insidiosa, furbescamente travestita da fasulli sentimenti di
bontà.
I profughi? aiutiamoli nei loro paesi (così non vengono a crearci
problemi). Bambini che possono nascere con dei deficit? Perché farli
arrivare a una vita che sarà piena di ostacoli e di sofferenze (per loro
o per noi?). Anziani o malati che non hanno nessuna prospettiva di
guarigione o di vita decente? Perché farli (farci) tribolare? E la lista
degli "scarti" potrebbe continuare anche per emarginazioni più astute e
difficili da individuare, come categorie di lavoratori che, o per l'età
o per il livello di preparazione, vengono scartati perché non rendono
come la logica del profitto esige. Per chi è cristiano non c'è e non ci
può essere nessuno che possa essere lasciato "fuori dell'accampamento",
perché le motivazioni profonde dell'accoglienza non sono di tipo
sociale, culturale, economico, né tanto meno elettorali, ma quelle che
san Paolo riassume in poche parole: "fate tutto per la gloria di Dio".
Recita la Sapienza: "Tu, Dio, ami tutte le cose che esistono e
non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi
odiato qualcosa, non l'avresti neppure formata" (11.24).
Possiamo noi non amare e provare disgusto per qualcosa, e soprattutto
per qualcuno, che Dio ha creato? Evidentemente no. Il vangelo non ci
chiede di sorvolare sulle difficoltà e di ricorrere a soluzioni
facilone. Gesù non è buonista e facilone: obbliga il lebbroso a
rispettare la procedura di confermata guarigione stabilita dalla Legge
mosaica: "va a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto".
Ciò che dobbiamo evitare è accettare di tenere qualcuno, chiunque esso
sia, "fuori dall'accampamento", fuori dalla nostra accoglienza, senza
tentare in tutti i modi, con intelligenza e prudenza, la possibilità di
reinserirlo, per far risplende almeno un piccolo barlume della gloria di
Dio che è in lui.