Brevi note sulla prima lettura
Levitico 19,1-2.17-18
Nella Torah, l’insegnamento dato da Dio al suo popolo tramite Mosè,
sta scritto il comando: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio,
sono santo”. Ma cos’è questa santità di Dio che può essere estesa al
suo popolo?
Una differenza! Come Dio è differente dagli altri
dèi e dalla mondanità, così anche il suo popolo deve vivere e mostrare
una differenza rispetto agli altri: differenza soprattutto nel
comportamento, nella prassi, nei rapporti con il prossimo. Al centro di
questo comportamento vi è il comandamento parallelo a quello dello
Shema‘ Jisra’el (amore per Dio: cf.
Dt 6,5):
“Amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. L’amore
con cui Dio ama deve essere vissuto dagli umani tra di loro. Solo così
si può amare Dio in verità: amando gli altri.
Commento al Vangelo
Vangelo secondo Matteo 5,38-48Dopo le prime quattro antitesi annunciate da Gesù nel “discorso della
montagna”, ecco le ultime due, nelle quali appare ancora la
“differenza” richiesta da Gesù ai suoi discepoli rispetto alla Legge di
Mosè, confermata ma approfondita e reinterpretata.
In questo caso viene messa a fuoco la violenza: come arginarla? Come
rispondere a essa? Certo, nella Torah si trova scritta la “legge del
taglione”, della reciprocità tra chi ha offeso e chi è stato offeso (cf.
Es 21,24; Lv 24,20; Dt 19,21),
legge data per impedire il deflagrare degli eccessi della violenza, che
facilmente viene moltiplicata per ripagare l’aggressore. Si ricorda, ai
primordi dell’umanità, il canto selvaggio e barbaro di Lamek, che si
vantava di vendicarsi non sette volte, come Caino, ma settanta volte
sette (cf. Gen 4,24).
Dunque la legge del taglione è un limite, un argine alla violenza:
“Occhio per occhio e dente per dente”. Non scandalizziamoci di fronte a
questa ingiunzione, perché ancora oggi siamo testimoni di fenomeni di
vendetta moltiplicata, come la “faida” o la rappresaglia nelle guerre,
nelle lotte razziali, nella violenza terroristica.
Ebbene, con la sua autorità Gesù può dire anche in questo caso: “Ma
io vi dico di non resistere al malvagio”, proponendo una pratica di
non-violenza che è un nuovo modo di resistenza attiva, una resistenza
inaudita perché mite, umile, misericordiosa. Solo così si può arrestare
la reazione a catena della violenza. È in questa logica di non-violenza
che Gesù propone dei casi, degli esempi di violenza subita, indicando
come rispondervi. “Se uno ti percuote con uno schiaffo”, fatto
quotidiano anche nella vita famigliare, “se tu vuoi essere discepolo
porgi l’altra guancia”. Linguaggio semitico, per noi forse eccessivo,
che non vuole suggerire un’esecuzione materiale del comando, ma
piuttosto indica lo “spirito” che deve ispirare l’atteggiamento verso
l’aggressore. Non a caso, secondo il quarto vangelo, dopo aver ricevuto
uno schiaffo da una delle guardie del sommo sacerdote, Gesù non gli
porge l’altra guancia (cf. Gv 18,22), ma replica con assoluta mitezza: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).
Questo comando rivolto personalmente a ogni discepolo non esige
ingenuità né passività di fronte alla violenza, ma richiede di essere
sempre “artefici di pace” (Mt 5,9).
E nel caso di un pignoramento, se viene tolta la tunica, Gesù chiede di
dare anche il mantello, che la Legge vieta di togliere al povero (cf. Es 22,25-26; Dt 24,10-13).
Ma ripeto: Gesù non predica rassegnazione, non chiede di lasciare che
l’ingiustizia trionfi, ma chiede un atteggiamento creativo, sempre
capace di toccare l’aggressore, di fargli ascoltare una domanda che egli
non si pone. In ogni caso, davanti all’ingiustizia patita, occorre non
tacere mai, non fuggire, ma intervenire, pur rinunciando sempre
all’offesa e alla violenza. Sempre si tratta di “vincere il male con il
bene” (cf. Rm 12,21).
Ciò è richiesto al discepolo anche quando è costretto a fare strada da
qualcuno, a quei tempi spesso l’occupante romano: accetti di camminare
più di quanto gli è richiesto… Perché la logica evangelica è rispondere
al male facendo il bene, rispondere positivamente a chi ha bisogno.
Segue la sesta e ultima antitesi: “Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo’ (Lv 19,18)
e odierai il tuo nemico, ma io vi dico…”. Nella Torah non sta scritto
materialmente da nessuna parte di odiare il nemico, ma resta vero che
nelle Scritture vi sono testi che non solo giustificano l’odio per il
nemico, ma lo richiedono, soprattutto se il nemico personale è sentito
anche come nemico di Dio. Al riguardo, va denunciato un vizio tipico
delle persone religiose: quando hanno un nemico personale, facilmente,
pensando che Dio sta dalla loro parte, si sentono autorizzate a odiarlo a
nome di Dio, pregando addirittura contro di lui salmi di imprecazione.
Emblematico è il caso del salmo 139: “Non devo forse odiare chi ti
odia, detestare i tuoi avversari, Signore? Li odio con odio implacabile,
li ritengo miei propri nemici!” (vv. 21-22). Sì, le persone religiose
odiano più intensamente delle altre, ritenendosi giustificate e
appoggiate da Dio!
Ecco perché Gesù toglie ogni possibilità a questa deriva e non
asseconda neppure il linguaggio immaginifico di cui vi sono tracce negli
scritti di Qumran: “Amerai i figli della luce e odierai i figli delle
tenebre”. Al contrario, egli comanda: “Amate i vostri nemici e pregate
per quelli che vi perseguitano”. Parole scandalose, inaudite, che
sembrano trascendere le nostre capacità umane. Eppure questa è per Gesù
nient’altro che l’interpretazione del comandamento: “Amerai il prossimo
tuo come te stesso”. Ovvero, lo amerai sempre, in ogni situazione, anche
quando ti è nemico, anche quando ti fa del male; anzi, simultaneamente
all’offesa ricevuta, continuerai ad amare di un amore che si spinge fino
a pregare, a chiedere a Dio il bene per il persecutore. Può forse un
cristiano classificare come nemiche e odiare quelle persone alle quali
Dio, Padre di tutti, concede senza alcuna discriminazione il sole (la
vita) e la pioggia (la fecondità), i beni della creazione?
Il discepolo di Gesù capovolge la logica delle Scritture dell’Antico
Testamento. Se nei salmi è richiesto di pregare contro i nemici (cf. Sal 16,13; 27,4; 68,23-29, ecc.), Gesù invece chiede di pregare per il loro bene, di benedire chi maledice (cf. Lc 6,28).
Se egli lo chiede, è perché questo è l’atteggiamento di Dio, come
l’Apostolo attesta nella Lettera ai Romani: “Dio dimostra il suo amore
verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è
morto per noi … Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio”
(Rm 5,8.10).
Questa è la “differenza cristiana”, la differenza del discepolo di Gesù
rispetto a giudei o pagani, indifferenti o non credenti. Amare l’altro
nella sua irriducibile alterità, al di fuori di ogni logica di
reciprocità, che richiede il contraccambio e il riconoscimento reciproco
dei diritti. Spetta dunque al cristiano vincere la paura del diverso,
avere il coraggio di opporre il bene al male, assumere un comportamento
pieno di amore gratuito verso i nemici, chiedere a Dio il bene, la
felicità, la vita dell’aggressore. David Flusser, un grande studioso
ebreo che pure era affascinato e in attento ascolto di Gesù, diceva che
questo suo comando era l’unico che non poteva trovare realizzazione, ma
era destinato a restare utopia. Eppure la storia testimonia di discepoli
e discepole che, come Stefano, il primo martire cristiano, hanno
vissuto questo comando fino alla morte, invocando il perdono (cf. At 7,60), come Gesù aveva fatto sulla croce (cf. Lc 23,34).
Chi pratica questo comandamento di Gesù sperimenta il compimento
della promessa di “essere figlio del Padre che è nei cieli”, il quale
ama tutti di un amore che non va meritato e che non dipende dall’essere
buoni o malvagi, giusti o ingiusti. Così si può essere téleioi, completi, nella pienezza dell’amore, come “Dio è amore” (1Gv 4,8.16). Se nella Torah il comando era: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2; cf. 1P 1,16),
nelle parole di Gesù esso è interpretato come “Siate perfetti, capaci
di una giustizia superiore, come Dio, il Padre”. E significativamente in
Luca diventerà: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è
misericordioso” (Lc 6,36), come già interpretava la parafrasi aramaica del Targum (su Lv 22,28): “Dice il Signore: ‘Come io sono misericordioso nei cieli, così voi sarete misericordiosi sulla terra”.
Il vangelo in poche parole p. Marko Ivan Rupnik:
p. Ermes Ronchi:
p. Alberto Maggi:
p. Gaetano Piccolo:
sr. Mariangela Tassielli: