Una delle cose tradizionali e simpatiche del Natale sono le recite dei bambini.
Anzi direi le recite in generale. Recitiamo a fare la parte dei buoni,
recitiamo portando regali che spesso non esprimono i veri sentimenti che
abbiamo verso le persone, recitiamo persino la parte di credenti
convinti, ostentando la pretesa di essere veri depositari del senso del
Natale. Per fortuna le recite finiscono. E torniamo a fare i conti con
quello che abita veramente il nostro cuore.
Le recite dei bambini suscitano tanta tenerezza. Non
solo per i bambini, ma anche per i genitori, che guardano i propri
figli con un candore ingenuo, come se per un momento i loro figli
fossero diventati le star del momento. Però anche le recite dei bambini
finiscono, e, loro malgrado, tornano a essere i bambini di sempre, i
bambini normali che fanno i capricci, che non obbediscono, che si
stufano di ascoltare i rimproveri dei genitori.
Dentro il Vangelo di questa domenica, oltre certamente al più profondo significato teologico, c’è anche questo: l’inquietudine di due genitori
che si devono confrontare con le domande impreviste e il comportamento
indecifrabile del proprio figlio all’inizio dell’adolescenza.
Gesù ha dodici anni, dice il testo, ancora non ha
raggiunto la maggiore età, che nel mondo ebraico viene celebrato l’anno
dopo. Ma Gesù appare come un ragazzino che comincia a desiderare la
propria autonomia e a cercare la propria strada.
Ogni genitore ha inevitabilmente la tentazione di considerare il proprio figlio come sua proprietà: il diritto romano lo aveva persino sancito giuridicamente, il pater familias,
dopo la nascita del bambino, lo sollevava da terra e con quel gesto lo
riconoscevo come suo figlio, ma nello stesso tempo affermava su di lui
il diritto di vita e di morte.
La vita però ci svela che i figli non ci appartengono,
sono un dono gratuito, sfuggono al nostro controllo, non possiamo mai
arrivare a scolpirli esattamente come vorremmo. Sono destinati a
lasciarci. I genitori sono chiamati ad offrire loro radici a cui poter
sempre ritornare, ma al contempo, i genitori sono chiamati a dare loro
anche ali affinché possano intraprendere il loro volo.
Il racconto di Anna che porta al Tempio il figlio Samuele è
esattamente il riconoscimento di questo dono, la consapevolezza che i
figli appartengono a colui che li ha donati.
Dietro la normalità di un episodio di vita familiare, che oggi ci
viene raccontato dal Vangelo, dentro un momento di ordinaria
incomprensione tra genitori e figli, c’è un senso teologico ancora più profondo.
Innanzitutto perché Gesù compie insieme ai propri genitori un viaggio verso Gerusalemme,
anticipando in qualche modo quel viaggio che proprio nel Vangelo di
Luca è il centro del racconto: alla fine del capitolo nove, Gesù
deciderà consapevolmente di andare a Gerusalemme per dare la sua vita
per noi.
E a Gerusalemme, il ragazzino Gesù resterà per tre giorni, dice il
testo, proprio come per tre giorni resterà nel cuore della terra, nel
sepolcro a Gerusalemme, senza che nessuno possa trovarlo.
Maria cerca il bambino Gesù, come le donne
cercheranno Gesù al sepolcro: sia Maria all’inizio della vita di Gesù,
che le donne alla fine del Vangelo, sono il simbolo di ogni credente
chiamato a cercare il Signore, nonostante la fatica e a volte
l’incapacità di trovarlo. Dio infatti si fa trovare. Maria e Giuseppe
cercano Gesù nella carovana e le donne lo cercheranno al sepolcro, a
volte infatti cerchiamo Dio dove non è, lo cerchiamo nei luoghi
scontati, dove sarebbe ovvio cercarlo. Dio invece ci sorprende. È là
dove non penseremmo di trovarlo. Non è né nella carovana né nel
sepolcro. Dio è altrove.
Maria e Giuseppe trovano Gesù in mezzo ai sapienti nel Tempio.
È un’immagine che rievoca la figura biblica della Sapienza. Ciò che
deve attrarre la nostra attenzione è che, nonostante questa sapienza,
nonostante Gesù sia la Sapienza, la sua risposta è l’obbedienza:
«Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso».
Anzi, diremmo che l’obbedienza è il modo in cui Gesù esprime la sua
sapienza.
Maria non è solo figura del credente che cerca, ma, insieme a Giuseppe, condivide la fatica e l’inquietudine di ogni genitore
davanti ai comportamenti indecifrabili, e a volte irritanti, dei figli.
Maria si rivolge a Gesù non con un rimprovero, ma con una domanda:
chiede di capire, prima di giudicare. Non affronta Gesù da sola, ma
coinvolge Giuseppe in un’alleanza educativa: tuo padre e io ti cercavamo.
A volte, i comportamenti difficili dei figli rischiano di spezzare la
relazione tra i genitori, indebolendo il loro intervento educativo.
Giuseppe rimane in silenzio. Lascia parlare Maria. Forse per un accordo
previo tra loro o perché è consapevole che in quel momento per lui è
meglio tacere.
La risposta di Gesù è difficile da comprendere per i suoi genitori,
ma, attraverso questa risposta, il Vangelo ci dice che la prima parola
pubblica di Gesù nel Vangelo di Luca è “Padre”. Ci colpisce perché sarà
anche la sua ultima parola. Tutta la vita di Gesù è ricompresa
dall’inizio alla fine dentro la sua relazione con il Padre.
Anche in questa incomprensione, che spesso caratterizza la vita del
genitore, Maria e Giuseppe continuano a stare accanto al figlio nella
quotidianità della vita, pur sapendo che ci sarà un giorno in cui
dovranno farsi da parte per lasciare che le folle affaticate e senza guida prendano il loro posto. Come Maria ha generato Gesù nella sua nascita, così, successivamente, sarà la Parola che lo genererà alla vita adulta.
Ora che le recite di Natale sono finite, possiamo
tornare a confrontarci con la quotidianità della vita, a volte faticosa,
certo, ma più vera. Non a caso, il tempo della quotidianità per Gesù
con i suoi genitori è il tempo di Nazaret, un tempo su cui scende il
silenzio, forse perché le cose quotidiane e importanti della vita non
hanno bisogno di diventare sempre uno spettacolo.
Il vangelo in poche parole