“Il Cenone di Natale? Un suicidio”.
“Si lavora per salvare il Natale che sarà comunque a distanza”.
“Con questi morti il Covid è lunare”.
Non c’è da stare allegri, nel leggere i titoloni dei giornali che
ogni giorno devono in qualche modo farsi strada nelle nostre menti
assuefatte per innalzare la soglia dell’attenzione (e della paura).
Quindi il problema sarà che, con ogni probabilità, salterà il Cenone di Natale.
Rileggo e non so se mettermi a ridere: il Cenone di Natale.
Penso ai tantissimi che in questi anni
mi hanno comunicato il loro disagio all’idea di vivere da soli quel
momento, o in compagnia di persone sopportate con fatica. Penso al tanto
dolore oscuro che quel magnifico evento, il Natale, non il Cenone,
suscita in coloro che vengono travolti dal clima forzatamente festoso
che li attornia. Penso a quante volte ho invitato a guardare ai troppi
che vivono il giorno di Natale come al peggior giorno dell’anno…
E, birichino, ho anche vagheggiato di una moratoria sul Natale, proponendo di sospenderlo per qualche anno. Sospendere quel Natale, fatto di apparenza e di illusione.
Per riappropriarci del Natale.
Buffo: forse accadrà, allora.
Forse, sul serio, quell’antipatico del signor Covid, dopo averci
costretto a celebrare la Pasqua in casa, come sapevano fare le comunità
primitive, dopo averci resi tutti cattolici non praticanti per qualche
mese, riscoprendoci, infine, cercatori di Dio, ci obbligherà anche a
lasciar stare pacchi e pacchetti, luci e lustrini, per andare di notte a
Betlemme. Troppo forte.
Nella notte
Sarà un avvento diverso, come diversa è stata la quaresima e il tempo di Pasqua.
Sarà, per chi lo vorrà, occasione per prendere ancora in mano il
timone della barca della nostra vita, prendendo il largo. Sarà
l’occasione per attendere. Non per far finta che poi Gesù nasce, perché
il Signore è nato nella Storia e tornerà nella gloria, ma per farlo
nascere in noi.
Oggi, qui, quest’anno di pandemia, questo momento in cui tutto viene rimescolato, messo in discussione, amplificato.
Bella storia. Bella Storia. Una Storia che è salvezza. Sarà un avvento di attesa.
Di attesa di normalità, di attesa di abbracci e baci, di lunghe
serate e ridere e scherzare, di amici che se la raccontano, di fratelli e
sorelle nella fede che cantano nella notte davanti ad una icona.
Sarà un avvento di attesa. Di senso, di salvezza, di bene, di Dio.
Ma ad una condizione: quella di restare svegli.
Servi e portinai
La parabola di oggi è di immediata comprensione: il padrone di casa,
il Signore Gesù, è assente ma tornerà nella gloria. In questo tempo di
mezzo, fra la storia e la gloria, affida a noi, suoi servi, il compito
di vigilare, di costruire brandelli di Regno, di annunciare la sua
venuta.
Una venuta che, come meglio bisognerebbe tradurre, non avviene alla fine della notte, ma continuamente.
Lo aspettiamo nella gloria, il Cristo, ma anche nella vita di ciascuno di noi, qui, ora, oggi.
Ai servi è affidato ogni potere. Sciocco di un Cristo. Ingenuo! Come
se davvero fossimo in grado di gestire il potere d’amore che ha
inaugurato! Eppure accade proprio così: a queste fragili e sudicie mani
il Signore affida il suo Vangelo. Come un tesoro custodito in vasi
creta.
A noi, servi inutili.
E ai portinai, a coloro, cioè, che hanno maggiori
responsabilità, quella di aprire la casa, la Chiesa, la comunità, a chi
cerca il Signore, chiede di vigilare ancora di più, con maggiore
convinzione e sforzo. Quanto è terribile vedere portinai ignavi,
impigriti, imborghesiti, sedersi al posto del padrone!
Quanto scandalo suscitiamo quando dimentichiamo chi siamo veramente! Servi inutili.
Nella notte
Viene nella notte, il Signore, lo Sposo.
Noi, come le ragazze coraggiose delle scorse domeniche, sfidiamo ogni
notte con una piccola fiammella in mano. Sfidiamo questa notte fatta di
incertezza e di paura, di lugubri ombre e di amici e famigliari morti
in solitudine, di comunità azzoppate e distante, proprio come fanno
quelle ragazze. Ragazze coraggiose.
Non proprio come facciamo noi.
Che accampiamo mille scuse alla realizzazione della nostra felicità. Se fossi, se avessi, se potessi…
Non abbiamo tempo o opportunità o cultura sufficiente per essere
felici. Meglio maledire il buio, meglio rannicchiarsi in un angolo
tappandosi le orecchie.
Sì, certo, è buio fitto. Basta guardarsi intorno per capirlo. Per
vedere il tasso di violenza, nelle parole, nei pensieri, che attanaglia
le persone, tutte rabbiose con tutti, tutti convinti di essere vittime
di qualcuno. Non è così, smettiamola di nasconderci dietro ad un dito.
C’è chi maledice la notte. Chi accende una luce.
Chi attende un aiuto. Come i deportati in Babilonia.
Se tu squarciassi il cielo e scendessi!
Il lamento straziante sale dalla bocca di uno degli autori del libro
del profeta Isaia, in esilio dopo la durissima sconfitta contro
Nabucodonosor. Nessuna speranza all’orizzonte, nessuna possibilità di
riscatto, solo l’amarezza dell’esilio e della schiavitù.
Per la prima volta nella Bibbia, il Dio dei patriarchi viene invocato col titolo padre.
Titolo che non veniva usato perché comune nell’invocazione pagana alle proprie divinità.
Ma ora non c’è più remora, né timore di essere ambigui. Non c’è più il tempio, né la città santa, né il re. Tutto è perduto.
Solo sale quell’invocazione fatta quasi sottovoce, una immensa ricerca di salvezza, un grido silente.
Se tu squarciassi il cielo e scendessi!
Un grido che ancora sale da questa terra d’esilio in cui siamo. Un
grido di avvento mentre ci prepariamo a celebrare la nascita di Cristo
in ciascuno di noi, nell’attesa del suo ritorno definitivo.
Pregare
Come restare desti? Come nutrire la nostra anima? Come riempire d’olio le lampade che si consumano?
Nell’orto degli ulivi, ai discepoli oppressi dal sonno e dalla tristezza, Gesù chiede di pregare.
Una preghiera che è intimo dialogo col Padre, che è relazione
fiduciosa ed appassionata con lui, che è nutrimento dell’anima nel
silenzio della lettura orante della Parola di Dio.
Ciò che cercheremo di fare in questo ennesimo avvento, in questo
breve tempo in cui cercheremo di sostenerci a vicenda, incoraggiandoci,
restando svegli.
Perché, purtroppo, anche lo stravolgimento di senso che abbiamo
operato nei confronti del Natale rischia di essere un anestetico.
Mortale.
E nella preghiera, come un mantra, ripetiamo quanto abbiamo udito dalla Parola:
Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito,
occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi
confida in lui.
Vegliamo allora, noi, che aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.
Il vangelo in poche parole