Servo e testimone: due parole (e due
ruoli) affascinanti e complicate. Parole e ruoli per gente dal palato
forte in tempi di fuggi-fuggi generale, in tempi di “io faccio i fatti miei”.
Alcune volte nella vita mi è capitato di bazzicare per tribunali,
chiamato da giudici che mi volevano ascoltare in qualità di “testimone”.
Una scocciatura. Ma anche un’opportunità sociale e umana. Che mi pare
rappresenti bene la mia vocazione cristiana/battesimale a metterci la
faccia.
Poca roba di fronte a chi ci ha messo non solo la faccia, ma anche la vita.
La Ong Porte aperte (https://www.porteaperteitalia.org/persecuzione/_wwlist/)
pubblica annualmente la lista dei primi 50 Paesi dove più si
perseguitano i cristiani al mondo. Nel periodo di riferimento
dell’ultimo rapporto 2019 ( dal 1 novembre 2017 al 31 ottobre 2018)
risulta che nel mondo oltre 245 milioni di cristiani sono perseguitati e
salgono a 4305 i cristiani uccisi per cause legate alla loro fede.
Papa Francesco durante l’Angelus del 23 giugno 2013 aveva detto: « Oggi
abbiamo più martiri che nei primi secoli! Ma c’è anche il martirio
quotidiano, che non comporta la morte ma anch’esso è un “perdere la
vita” per Cristo, compiendo il proprio dovere con amore, secondo la
logica di Gesù, la logica del dono, del sacrificio. Quanti papà e mamme
ogni giorno mettono in pratica la loro fede offrendo concretamente la
propria vita per il bene della famiglia! Quanti sacerdoti, frati, suore
svolgono con generosità il loro servizio per il regno di Dio! Quanti
giovani rinunciano ai propri interessi per dedicarsi ai bambini, ai
disabili, agli anziani… Vedo che tra voi ci sono tanti giovani; vi dico:
non abbiate paura di andare controcorrente, quando ti vogliono rubare
la speranza, quando ti propongono questi valori che sono valori
avariati; quando un pasto è andato a male ci fa male, invece bisogna
andare controcorrente e avere questa fierezza di andare proprio
controcorrente».
SERVO.
Il brano profetico di Isaia è uno dei cinque inni sul servo di Dio presenti nel Libro di Isaia. Il “servo” parla in prima persona e riporta due rivelazioni di Dio.
La prima: «Tu sei il mio servo». Il termine ‘servo’
qui non ha una connotazione servile. Indica invece il ruolo di
autorevole collaboratore, di vice-ministro. Può darsi che anche Luca,
quando mette in bocca a Maria la frase «Eccomi, sono la serva del Signore», abbia in mente non l’immagine di una schiava stracciona, ma quella di “diacono” o “ministro”.
La seconda parola precisa la missione alla quale Dio chiama il
servo: ricostruire il popolo ebraico disperso in esilio e portare la
parola di Dio ai non-giudei affinché anch’essi possano beneficiare
della salvezza.
AGNELLO.
Il significato cristologico del simbolo «agnello di Dio»,
che per la comunità cristiana giovannea poteva essere trasparente, per
noi deve essere ricostruito mediante il richiamo dell’ambiente
giudeo-cristiano della prima chiesa. Certamente i cristiani che oggi
ascoltano quest’espressione «ecco l’agnello di Dio»
nell’assemblea domenicale, la rivestono di quei significati che la
tradizione catechistica e iconografica vi ha associato. L’estraneità di
questo simbolo al contesto culturale odierno, rischia d’evocare immagini
e di provocare atteggiamenti per lo meno ambigui. Per esempio: la
giustificazione di un certo vittimismo rassegnato e passivo dei
cristiani, un certo pacifismo fatto passare per non-violenza, un
irenismo dimissionario e inconcludente.
Vi è attualmente un accordo sostanziale nel ritenere che in questa espressione convergono due tradizioni bibliche: quella del Servo del Signore, di cui parla il quarto canto di Isaia, e quella dell’agnello pasquale, memoriale della liberazione del popolo dall’Egitto. Nell’interpretazione giudaica il tema dell’agnello pasquale e quello del servo del Signore tendono a identificarsi.
Può suonare anche incomprensibile, oggi, la frase: “toglie il peccato del mondo”.
Il verbo greco “airô” usato da Giovanni può essere tradotto con “portare su di sé” o “togliere”. La vulgata latina traduce con “tollere” che ha sempre il doppio significato di “prendere su di sé” o “portar via”. L’Agnello di Dio «toglie (porta) il peccato del mondo»
non come un gesto magico che passa sopra la libertà dell’uomo, quasi
asportandogli l’ascesso canceroso della colpa, mentre l’uomo giace sotto
anestesia. No, l’agnello toglie il peccato dell’uomo portandone
le distorsioni e le ferite, entrando nel dramma della libertà che
implode su di sé; e mentre porta queste piaghe le riconcilia dal di
dentro non togliendole nel modo con cui si lava una macchia, ma
restituendo all’uomo la sua capacità di relazione. Per questo il peccato
non è ‘tolto’ senza di noi, ma con noi, donandoci la nostra identità
filiale e fraterna. Il peccato sembra rimanere, ma nella misura in cui
gli uomini e le donne si lasciano trasfigurare dallo Spirito,
riprendendo la loro identità filiale e fraterna, il male nel mondo è
sconfitto, ha i giorni contati!
EVANGELIZZATORI O TESTIMONI?
La pagina del Vangelo secondo Giovanni è focalizzata attorno al motivo della testimonianza.
Se si leggesse tutto il brano di Giovanni 1,19-51 ci capiterebbe di
raccogliere una cascata di testimonianze a favore di Gesù. I testimoni
che sfilano su un immaginario palcoscenico sono il Battista, Andrea,
Filippo, Natanaele. Le loro voci si incalzano completandosi: Ecco l’agnello di Dio…. Colui che battezza nello Spirito santo… L’Eletto di Dio… Il messia… Il figlio di Dio… il re d’Israele…In chiusura, come punto culminante, troveremmo la testimonianza di Gesù: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il figlio dell’uomo».
Il primo anello della catena di testimoni è comunque la parola di
Giovanni Battista. Aveva fatto la sua deposizione davanti alla
delegazione ufficiale inviata da Gerusalemme, escludendo decisamente di
essere il Messia e definendosi una voce. In realtà il messia
era in mezzo a loro, ma da sconosciuto. Il giorno dopo, vedendolo
venirgli incontro, lo può indicare come l’agnello di Dio che (porta)
toglie il peccato del mondo. Le allusioni possibili sono all’agnello
pasquale di Es. 12,1-28, oppure all’agnello che ogni giorno era
sacrificato nel tempio (Es. 29, 38-46), oppure ancora al servo di Dio,
che nell’ultimo “Canto del Servo” viene appunto paragonato ad un agnello
condotto al macello (Is. 53,7) e che soffre per l’espiazione dei
peccati del popolo (Is. 53,4-6.8.10-11).
In conclusione, non mi sembra inutile richiamare l’attenzione su una
prospettiva caratteristica del quarto Vangelo. Intendo riferirmi al
motivo del giudizio; nella coscienza di ogni uomo si compie un
processo. Al suo centro c’è Gesù che ci interpella per una risposta di
fede. Non c’è scampo: decidersi per lui o contro di lui significa
decidersi per una vita vitale o per una vita spenta e insignificante
(morte). La fede cristiana porta in sé il carattere di una drammatica
decisione di fronte all’imputato Cristo.
La comunità cristiana non può sfuggire al suo gravissimo compito di
testimonianza. Lo potrà compiere con credibilità alla condizione di aver
fatto esperienza personale di Cristo nella fede e nell’amore: «Ciò
che era dall’inizio, ciò che abbiamo ascoltato, ciò che abbiamo visto
con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani
hanno toccato della Parola di vita ….ciò che noi abbiamo visto e udito
ve l’annunciamo» (1 Lettera di Giovanni 1,1-3).
«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». (Paolo VI, Discorso al Pontificio Consiglio per i laici del 2 ottobre 1974 ed Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 41).
I temi e i problemi della «nuova evangelizzazione», sono oggi prevalenti
nella Chiesa, almeno a livello di documenti ufficiali. Da ogni parte si
fanno programmi per rendere concreta questa «missione».
I testi biblici di questa domenica orientano la riflessione più nella direzione della «testimonianza» che in quella della evangelizzazione. Gli esegeti hanno notato che il vocabolario della evangelizzazione abbonda negli scritti più antichi del Nuovo Testamento, mentre quello della testimonianza
prevale negli scritti più recenti, fra i quali quelli giovannei. Ciò
corrisponde a una mutata situazione delle comunità ma anche a un diverso
atteggiamento di queste nei confronti dell’ambiente circostante. La
fede non ha più l’ardore e l’ardire della conquista missionaria, ma conserva la forza tenace dell’irraggiamento, del fascino attrattivo.
Come si spiega la innegabile e documentata diffusione della fede
cristiana nei primi secoli, soprattutto nelle città e lungo le vie dei
traffici e del commercio? Storicamente il fattore più importante era
costituito dai contatti personali, ove tutto dipendeva dalla qualità di
vita evangelica. La chiesa non aveva alcun planing aziendale missionario
e non era preoccupata di sviluppare metodologie proselitistiche. Eppure
cresceva di anno in anno. E’ sintomatico che il periodo post-apostolico
e pre-costantiniano abbia conosciuto una diffusione della fede per «contagio attivo», con il metodo della «diffusione cellulare»;
tutti i cristiani indipendentemente dal loro ruolo ecclesiastico,
contribuiscono a questa diffusione. Ma senza ansietà e progetti di
conquista e di proselitismo. Così la vita di quei cristiani è divenuta
testimonianza irraggiante. Può essere utile – in questo tempo di attiva
ricerca di modi per evangelizzare – riflettere su questa esperienza
storica della chiesa giovane più preoccupata di vivere il vangelo con
fedeltà che di diffonderlo.